sabato 10 gennaio 2015

Tibi silentium laus!

Dum medium silentium tenerent omnia, et nox in suo cursu medium iter haberet, omnipotens Sermo tuus, Domine, de caelis a regalibus sedibus venit. “Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l'onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale” (Introito, Domenica tra l'Ottava di Natale, MR 1962).
Nell'articolo della scorsa settimana ho parlato delle ragioni per cui è più sensato seguire l'antica abitudine di dividere la Messa tra “Messa dei Catecumeni” e “Messa dei Fedeli” in luogo della moderna nomenclatura “Liturgia della Parola” e “Liturgia dell'Eucaristia”. Questa settimana voglio invece riflettere sulla bellezza peculiare dell'antichissima tradizione del canone silenzioso [1] e su quanto esso confermi l'intuizione secondo la quale la Parola discende su di noi nella liturgia in un modo personale che trascende la presenza nozionale della Parola stessa che si ottiene con la lettura delle singole parole di un libro. Il succitato Introito fa emergere entrambi questi punti: la venuta di Colui che è Parola nel mezzo di un silenzio assoluto.

Come ho strenuamente difeso nella mia lectio divina dell'ultima Quaresima [2], il Signore ci parla indubbiamente nella Sacra Scrittura e attraverso di essa, e dobbiamo quindi  costantemente a tale fonte per poterLo ascoltare; tuttavia, Egli ci si fa presente in un modo ancóra più intimo nella Santa Comunione. La pratica tradizionale della recitazione silenziosa del Canone da parte del sacerdote enfatizza il fatto che Cristo non ci si fa presente a parole, ma nell'unica Parola che EGLI STESSO È, e che – essendo immanente, trascendente ed infinita – nessuna lingua umana può mai pronunciare. Una volta assunto questo fatto nella nostra vita di preghiera, le parole della Sacra Scrittura potranno, paradossalmente, penetrare i nostri cuori più efficacemente ed avere un effetto "più che protestante" sulle nostre menti.

lunedì 5 gennaio 2015