sabato 21 dicembre 2013

l'uomo del secolo


2014: centenario della morte di San Pio X



Il 28 giugno del 1914, a Sarajevo, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono imperiale, e sua moglie Sofia, furono uccisi in un attentato architettato dalla società segreta della “Mano nera”; il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia e, per un gioco di alleanze, in breve tempo entrarono in guerra tutte le nazioni europee. Due guerre mondiali, milioni e milioni di morti, il tracollo di quattro grandi Imperi (Austria, Germania, Russia e Turchia), l’avvento del Comunismo e del Sionismo, la fine dell’Europa con la supremazia statunitense: i colpi di pistola di Sarajevo aprirono come un nuovo, infernale, vaso di Pandora, che ancor oggi, a cento anni di distanza, non è stato richiuso. Ma un altro avvenimento, di poco susseguente, ha lasciato una eredità ancora più tragica, al confronto della quale le due guerre mondiali sono poca cosa: la morte del Papa San Pio X, avvenuta il successivo 20 agosto. Certo, quel giorno, o meglio: quella notte, le porte del Cielo e della gloria si spalancarono per il grande Pontefice. Certo, la Chiesa ebbe ancora sul trono di Pietro tre successori per i quali, tutti, valgono le parole di Cristo: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa; conferma i tuoi fratelli; pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Ciò malgrado, è indubbio che la scomparsa del grande Pontefice fu per la Chiesa, umanamente parlando, una sventura più grave della Guerra che per anni avrebbe flagellato l’umanità.

San Pio X era ben conscio del pericolo gravissimo che correvano le anime. Egli aveva combattuto a viso aperto per difendere la Fede, minacciata dalla più terribile delle eresie: il Modernismo. Ed egli sapeva che i modernisti (giacché non c’è errore senza uomini che lo concepiscono e lo diffondono) erano non solo nemici della Chiesa, ma i più dannosi tra i nemici della Chiesa, perché “i loro consigli di distruzione non li agitano costoro al di fuori della Chiesa ma dentro di essa; ond’è che il pericolo si appiatta quasi nelle vene stesse e nelle viscere di lei, con rovina tanto più certa, quanto essi la conoscono più addentro” (enc. Pascendi, 1907).
Questi nemici appartenevano non solo al laicato, ma anche – denunciava San Pio X – al ceto sacerdotale. Sette anni dopo, mentre gli illusi, gli adulatori, i falsi amici, gridavano a gran voce che il modernismo era sconfitto e dissolto, che non esisteva più, che ormai apparteneva al passato (leggi: che era inutile continuare a combatterlo), San Pio X, nel suo ultimo Concistoro, l’anno della sua morte, lanciava al contrario un angosciato grido d’allarme: non più solo tra il semplice clero, ma tra i vescovi stessi, ormai, si celavano i modernisti!

Dopo la condanna solenne nell’enciclica Pascendi, i modernisti si erano solamente – tranne i pochi scoperti e colpiti nominalmente, come Loisy – meglio nascosti, “appiattiti”, appunto, aiutati da tanti complici, da tanti cooperatori, da tanti simpatizzanti. Il modernismo fu spezzato ufficialmente nelle sue forze più virulente – negatrici della divinità di Cristo – ma sopravviveva invece e prosperava il modernismo sociale, malgrado la condanna del Sillon e della prima Democrazia cristiana di Romolo Murri. Abbandonato provvisoriamente il campo minato del dogma, il modernista si faceva piuttosto riformatore, e preparava il terreno per il futuro. Là dove il contingente lascia maggior spazio allo spirito riformatore, là lavorava il modernista mimetizzato: nel movimento liturgico ed ecumenico, nell’apologetica e nella filosofia (Blondel), nella spiritualità e nella pastorale (come già gli americanisti condannati da Leone XIII), nell’ambito politico e sociale.

Le grandi questioni della fine del pontificato di Papa Sarto furono eminentemente pratiche: la (a)confessionalità dei sindacati, della stampa e dei partiti cattolici, i rapporti tra Stato e Chiesa. Il nuovo pontificato di Benedetto XV non proseguì – con il cardinal Pietro Gasparri alla Segreteria di Stato – la politica ecclesiastica di San Pio X, e questo non solo perché la grande guerra aveva distolto l’attenzione dai problemi interni della Chiesa.
Antonio Gramsci – lucido nemico della Chiesa e attento osservatore dell’aspetto umano della medesima, l’unico che egli fosse in grado di percepire – studiò nelle sue Note sul Machiavelli i tre “partiti” che si confrontavano allora tra i cattolici: quello modernista, messo all’angolo da San Pio X, quello “integrale” che aveva goduto del pieno appoggio di Papa Sarto che era stato ora abbandonato sotto il nuovo pontificato, e quello da lui denominato “gesuita” che risultava, concretamente, vincitore. Era un “partito” che non era modernista, anzi ne era ufficialmente distante, ma che era tuttavia fermamente deciso a mettere la parola “fine” alla lotta antimodernista di San Pio X, e a ridurre al silenzio quel “cattolicesimo integrale” sostenuto dalla Santa Sede fino al 1914.
La Civiltà Cattolica in Italia, Etudes in Francia, Stimmen aus Maria-Laach in Germania, con la scuola di Colonia, furono tra le prestigiose riviste che sostennero una nuova linea, che si rivelò vincente. Lo scioglimento delSodalitium pianum – l’opera antimodernista di Mons. Umberto Benigni sempre sostenuta da San Pio X – fu ottenuta nel 1922 con una manovra tutt’altro che limpida che prese le mosse, nel 1915, negli ambienti democratici cristiani di Colonia, che fu ripresa in mano dai gesuiti francesi nel 1921 e che trovò nel cardinal Gasparri la sponda indispensabile a Roma; proprio quel cardinal Gasparri che nel 1928 testimoniò contro San Pio X durante il processo di beatificazione del Pontefice che pure lo aveva creato cardinale. Erano i tempi in cui fervevano le trattative tra la Segreteria di Stato ed il governo francese per chiudere con un compromesso diplomatico la frattura inaugurata dalle leggi laiche del 1905 condannate dall’enciclica Vehementer nos di San Pio X (11 febbraio 1906), e che si conclusero con l’enciclica Maximam gravissimamquedel 18 gennaio 1924.
Il governo francese, con un alto tasso di massoni tra i suoi ranghi, non mancò di appoggiare le manovre anti-integriste, e di creare anzi – grazie all’alto funzionario governativo Louis Canet, esecutore testamentario di Loisy – una vera e propria “leggenda nera” contro l’orribile “integrismo” cattolico.
Quando dieci anni dopo, il 27 febbraio 1934, Mons. Benigni morì a Roma, ottanta anni fa, era già da tempo come morto negli ambienti ecclesiastici che contano. Come stupirsene, se nel luglio 1931 il cardinale Arcivescovo di Parigi, Mons. Verdier, poteva dichiarare impunemente che “il Sillon è all’origine del grande movimento sociale contemporaneo… è di fatto il Sillon che ha dato il via a tutte le iniziative giovanili nate in seguito”. Il cardinale parlava dello stesso Sillon di cui San Pio X scriveva: “Il Sillon scorta il Socialismo con l’occhio fisso su di una chimera. (…) d’ora innanzi forma solo un misero affluente del grande movimento di apostasia, organizzato in tutti i paesi, per l’instaurazione di una Chiesa universale che non avrà né dogmi né gerarchia…”.
Come stupirsi se le magnifiche encicliche di Benedetto XV e Pio XI restavano poi lettera morta? Come stupirsi pertanto – umanamente parlando – degli esiti del Vaticano II, aperto da quel Giovanni XXIII che, giovane sacerdote, ebbe a deplorare e subire il pontificato di San Pio X, mentre si entusiasmava nella lettura degli americanisti e del fondatore del Sillon, Marc Sangnier?

La beatificazione di Pio X nel 1951, la sua canonizzazione nel 1954, fortemente volute da Pio XII, che vedeva rinascere nella Nouvelle Théologie il mai spento modernismo, sono stati come l’ultimo suggello della Divina Provvidenza per confortare i cattolici fedeli prima della traversata del deserto spirituale che sembra non avere fine. L’infallibile parola del Vicario di Cristo ci assicura che seguendo le orme di Papa Pio X i cattolici sono sicuri di restare saldi nella Fede, e di poter vincerne tutti i nemici, spirituali e temporali, interni ed esterni, che cercano, invano, di spegnerla, e di metterne per sempre a tacere la voce.

San Pio X, prega per noi, e soccorri la Chiesa che ti fu affidata da Cristo!

venerdì 20 dicembre 2013

a peste, fame et bello (et ab Unione Europea) libera nos, Domine! (Ma quando finirà questa follia?)

Non potremo farci più nemmeno l'Orto(?)...UE = sempre più "Dittatura Centralista degli Eurocrati"



Il titolo suona un po' come quelli dell'informazione complottista
in stile "è tutta colpa del Bilderberg e della Trilateral...ed io c'ho i nomi ed i cognomi di tutti i colpevoli..." ;-)
Però stavolta ci sta bene...
visto che si parla di nientepopodimeno che di VIETARE GLI ORTI (o qualcosa di molto simile).

E' sempre più evidente come l'Unione Europea
stia diventando una Dittatura Centralizzata e gestita da una manica di Eurocrati
piuttosto che una Federazione che faccia interagire al meglio tra di loro una serie di Stati Autonomi, valorizzandone le notevoli differenze.
Insomma, in questa UE...2+2, invece di fare 6,
sta facendo 2...od anche zero (se non persino sottozero...).

Si procede sempre più ................
.
verso un'omogeneizzazione forzata e spesso miope, che non può non farti venire dei considerevoli sospetti ...
Certe Leggi UE sembrano proprio fatte ad hoc per favorire certe multinazionali...che forse intrattengono "rapporti un po' tropo stretti" con molti commissari&parlamentari europei...

Il risultato finale è che la LIBERTA' DELL'UOMO viene sempre più REPRESSA in questa UE-RSS.
E poi ci scandalizziamo per i Forconi...#9dicembre...;-)
Pensate un po' a cosa potrebbe succedere se veramente tenteranno di impedirci l'Auto-produzione di Cibo...
I Forconi diventeranno un po' pochetto e si passerà direttamente ai Bazooka...;-)

Non a caso gli Eurocrati, che provengono da Democrazie in teoria basate sulla Sovranità Popolare, si trovano a stra-parlare un giorno sì e l'altro pure di POPULISMO
proprio tutte le volte che il "Popolo" tenta di esercitare la sua Sovranità ...ormai negata a più livelli, da quelli micro a quelli macro...

Ecco il Rumors che sta girando in merito agli Orti...: vedremo se la voce verrà confermata.
Ue: fuorilegge i piccoli orti. Vietato autoprodursi il cibo 
Una nuova legge proposta dalla Commissione europea renderebbe fuorilegge i piccoli ortaggi i cui semi non sono stati "analizzati, approvati e accettati" da un nuova agenzia europea.
Le persone che coltivano zucchine o altri prodotti sul balcone o in cortile sarebbero considerati fuorilegge. 

Coltivate ortaggi nel giardino o sul balcone?
Tra poco potreste essere considerati fuorilegge.

La Commissione europea ha infatti proposta una legge per rendere illegale “coltivare, riprodurre o commerciare” semi di ortaggi che non siano stati “analizzati, approvati e accettati” dalla nuova Agenzia delle Varietà Vegetali europee.
La proposta di legge si chiama Plant reproductive Material law e la sola possibilità che entri in vigore ha fatto gridare allo scandalo.
Sì, perché secondo molti questa sarebbe un grande regalo fatto ai grandi produttori di sementi, come la Monsanto.
A riportare la notizia è l'associazione Libre, che la riprende da Mike Adams, Health Ranger Editor di NaturalNews.com. (Maggio 2013)
"Se un contadino della domenica - scrive Libe - coltiverà nel suo giardino piante con semi non regolamentari, in base a questa legge, potrebbe essere condannato come criminale.

REGALO A MONSANTO E DUPONT
Questa legge, protesta Ben Gabel del “Real Seed Catalogue”, intende stroncare i produttori di varietà regionali, i coltivatori biologici e gli agricoltori che operano su piccola scala".
"Come qualcuno potrà sospettare – afferma Mike Adams su Natural News – questa mossa è la “soluzione finale” della Monsanto, della DuPont e delle altre multinazionali dei semi, che da tempo hanno tra i loro obiettivi il dominio completo di tutti i semi e di tutte le coltivazioni sul pianeta».
Di fatto, spiega lo stesso Adams, ai sensi della nuova normativa comunitaria, la maggior parte delle sementi tradizionali saranno fuorilegge.
"Questo significa che l’abitudine di conservare i semi di un raccolto per la successiva semina – pietra miliare per una vita sostenibile – diventerà un atto criminale".
Inoltre, spiega Gabel, questa legge "uccide completamente qualsiasi sviluppo degli orti nel giardino di casa in tutta la comunità europea" avvantaggiando così i grandi monopoli sementieri.

TASSA PER LA BUROCRAZIA
"Questo è un esempio di burocrazia fuori controllo - protesta Ben Gabel -.
Tutto quello che produce questa legge è la creazione di una nuova serie di funzionari dell’Ue, pagati per spostare montagne di carte ogni giorno, mentre la stessa legge sta uccidendo la coltura da sementi prodotti da agricoltori nei loro piccoli appezzamenti e interferisce con il loro diritto di contadini a coltivare ciò che vogliono.

Inoltre - aggiunge Gabel -, è molto preoccupante che si siano dati poteri di regolamentare licenze per tutte le specie di piante di qualsiasi tipo e per sempre, non solo di piante dell’orto, ma anche di erbe, muschi, fiori, qualsiasi cosa, senza la necessità di sottoporre queste rigide restrizioni al voto del Consiglio.
"Tutti i governi sono ovviamente entusiasti dell’idea di registrare tutto e tutti - rincara la dose Adams -. Tanto più che i piccoli coltivatori dovranno anche pagare una tassa per la burocrazia europea per registrare i semi". 
tratto da:  http://www.ilgrandebluff.info/2013/12/non-potremo-farci-piu-nemmeno-lortoue.html

mercoledì 18 dicembre 2013

cartoline dal futuro

               Prove di MinCulPop Omosex?

di Marco Tosatti

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fonte: La Stampa
 
Rilanciamo il contenuto di un interessante articolo de “La Bussola Quotidiana” su un documento che il Ministero per le Pari Opportunità sta elaborando. E per spiegare a chi non sapesse di che cosa si tratta il termine usato nel titolo, “Minculpop”, diciamo che si tratta di un’abbreviazione del Ministero della Cultura Popolare, ben noto e fiorente durante il regime fascista. Ecco la descrizione che ne da’ Wikipedia: “Il ministero aveva l’incarico di controllare ogni pubblicazione, sequestrando tutti quei documenti ritenuti pericolosi o contrari al regime e diffondendo i cosiddetti ordini di stampa (o veline) con i quali s’impartivano precise disposizioni circa il contenuto degli articoli, l’importanza dei titoli e la loro grandezza. Più in generale, il ministero si occupava della propaganda, quindi non solo del controllo della stampa. Altro compito importante fu quello della promozione del Cinema di propaganda fascista”.
Ma ecco l’articolo de “La Bussola Quotidiana”. In calce il link al documento.
 
 
“Credevate che l’UNAR, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Ministero delle Pari Opportunità ce l’avesse solo con gli insegnanti, imponendo loro d’insegnare obbligatoriamente l’ideologia di genere? Sbagliavate. Ora se la prende con i giornalisti, pubblicando il 13 dicembre un documento tecnicamente incredibile, intitolato «Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone LGBT» (in fondo all’articolo si può scaricare il documento). Il modesto titolo «Linee guida» non inganni. Si precisa subito infatti che i giornalisti che non si piegheranno ai diktat dell’UNAR violeranno le norme deontologiche, per cui la denuncia all’Ordine dei Giornalisti è dietro l’angolo. Inoltre il testo – tutto bastone e poca carota – spiega anche che è solo questione di tempo: «l’Italia si sta adeguando» ai Paesi più civili, presto il Parlamento introdurrà una «legislazione specifica» contro l’omofobia e il giornalista che sbaglia rischierà non solo il deferimento all’Ordine ma la galera.
E che cosa si deve fare per adeguarsi? Occorre rispettare dieci comandamenti, redatti dagli esperti – quasi tutti di organizzazioni LGBT – che hanno preparato le linee guida. Primo: non confonderai il sesso con il genere. Il sesso è una caratteristica anatomica, ma ognuno sceglie se essere uomo o donna «indipendentemente dal sesso anatomico di nascita». È davvero il primo comandamento dell’ideologia di genere, ma ora diventa obbligatorio.
Secondo: benedirai il «coming out». Vietato parlare di «gay esibizionisti»: il giornalista porrà invece attenzione a sottolineare gli aspetti positivi della «visibilità» degli omosessuali e il coraggio di chi si rende visibile.
Terzo: riabiliterai la parola «lesbica». «Dare della lesbica» non è un insulto: è un complimento. Ma attenzione a non esagerare, promuovendo il «voyeurismo» dei maschietti. Quarto comandamento: attenzione agli articoli. Se un transessuale si sente donna il giornalista deve scrivere «la trans» e non «il trans». Per Vladimir Luxuria, per esempio – è esplicitamente citato (o citata?) nelle linee guida – vanno sempre usati articoli e aggettivi al femminile. Non importa – al solito – l’anatomia: se qualcuno «sente di essere una donna va trattata come tale». Quinto: non associare transessuali e prostituzione. E comunque mai parlare di prostitute o prostituti. Il giornalista userà invece l’espressione «lavoratrice del sesso trans».
Come è giusto per materie di questo genere, molto si gioca sul sesto comandamento: il giornalista dovrà educare i suoi lettori a considerare cosa buona e giusta il «matrimonio» omosessuale, «o almeno il riconoscimento dei diritti attraverso un istituto ad hoc» . Farà notare che «il matrimonio non esiste in natura, mentre in natura esiste l’omosessualità». Fuggirà come la peste «i tre concetti: tradizione, natura, procreazione», sicuro indizio di omofobia. Ricorderà ai suoi lettori che il «diritto delle persone omosessuali ad avere una famiglia è sancito a livello europeo».
Il sesto comandamento dell’UNAR basta a mettere nei pasticci qualunque giornalista che per avventura fosse d’accordo con il Magistero cattolico. Se qualcuno sfuggisse al sesto, incalza però il settimo comandamento: vietato parlare di «matrimonio tradizionale» e, per converso, di «matrimonio gay», che il giornalista dovrà invece qualificare come «matrimonio fra persone dello stesso sesso» per non rischiare, anche involontariamente, di diffondere la pericolosa idea secondo cui si tratterebbe di «un istituto a parte, diverso da quello tradizionale».
Difficilissimo poi per il giornalista cattolico – o, che so, per il collaboratore di questa testata – evitare di violare l’ottavo comandamento, il quale in tema di adozioni vieta di sostenere che il bambino «ha bisogno di una figura maschile e di una femminile come condizione fondamentale per la completezza dell’equilibrio psicologico». Il giornalista che sostenesse questa tesi si renderebbe responsabile della propagazione di un «luogo comune», smentito dalla «letteratura scientifica». Vietatissimo, poi, parlare di «utero in affitto», espressione «dispregiativa» da sostituire subito con «gestazione di sostegno».
Il nono comandamento sembra scritto apposta per il caso di Giancarlo Cerrelli, il noto vicepresidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani colpevole di rappresentare troppo efficacemente le ragioni di chi ė contrario alla legge sull’omofobia in televisione e quindi dichiarato persona non gradita nei programmi RAI. «Quando si parla di tematiche LGBT – si legge in un passaggio delle linee guida che sarebbe esilarante se non ci fosse la minaccia di gravi sanzioni per chi sgarra – è frequente che giornali e televisioni istituiscano un contraddittorio: se c’è chi difende i diritti delle persone LGBT si dovrà dare voce anche a chi è contrario». Sembrerebbe il minimo sindacale del pluralismo e della democrazia, specie se parliamo della RAI e di servizio pubblico.
Ma le linee guida ci dicono che questo «non è affatto ovvio». Il caso Cerrelli insegna. «Cosa deve accadere affinché il contraddittorio fra favorevoli e contrari ai diritti delle persone gay e lesbiche non sia più necessario?». La risposta corretta sarebbe che deve accadere l’instaurazione di una dittatura, per dirla con Papa Francesco, simile a quella del romanzo «Il padrone del mondo» di Benson. La risposta delle linee guida invece è che basta una «scelta puramente politica» – che l’UNAR si arroga l’autorità di fare – per dire basta a questi dibattiti fastidiosi e pericolosi. Il buon conduttore televisivo avrà cura che sia espressa solo un’opinione, quella corretta. «Non esiste una soglia di consenso prefissata, oggettiva, oltre la quale diventa imprescindibile il contraddittorio». Quindi su questi temi se ne deve prescindere. Tornatene a casa, avvocato Cerrelli – in attesa magari di sentire anche per televisione il ritornello scandito da certi simpatici attivisti: «e se saltelli muore anche Cerrelli».
Non si salvano, infine, neanche i fotografi. Il decimo comandamento li invita a fare attenzione a che cosa fotografano nei gay pride, evitando immagini di persone «luccicanti e svestite». L’obiezione secondo cui se chi partecipa ai gay pride non si svestisse non correrebbe il rischio di essere fotografato nudo non sembra essere venuta in mente agli esimi redattori del testo.
Che però hanno pensato a una possibile difesa del malcapitato giornalista, il quale potrebbe sostenere che lui la pensa diversamente, ma per dovere di cronaca ha ritenuto di riportare anche le strane idee di chi si oppone al «matrimonio» omosessuale, e che magari ha radunato in una sala centinaia di persone. Difesa debole, sentenzia il documento. Il giornalista che riporta dichiarazioni, anche «di politici e rappresentanti delle istituzioni», contrarie alle linee guida può farlo per «dovere di cronaca» ma deve «attenersi ad alcune regole»: «virgolettare i discorsi», spiegare che sono sbagliati, contrapporre dichiarazioni di rappresentanti delle organizzazioni LGBT, che andranno tempestivamente intervistati, usare «particolare attenzione nella titolazione». Non sono forniti esempi, ma il bravo giornalista capisce al volo. Se per esempio un vescovo si dichiara contrario al «matrimonio» omosessuale, il titolo dovrà essere «Fedeli scandalizzati dal discorso omofobo del vescovo» e non «Il vescovo ricorda: la Chiesa non accetta il matrimonio omosessuale».
Giornalista avvisato, mezzo salvato. Ma anche italiani e parlamentari avvisati, mezzi salvati. Perché le linee guida per i giornalisti rendono involontariamente un enorme servizio. Spiegano esattamente, nero su bianco, che cosa sarà davvero vietato dalla legge contro l’omofobia. Altro che proteggere le persone omosessuali – com’è giusto che sia, e come già affermano le leggi in vigore – da insulti, minacce e violenze. Qui si tratta della dittatura del relativismo, senza sottigliezze e senza misericordia. Fermiamo questa macchina impazzita prima di ritrovarci tutti in un Gulag gestito da militanti LGBT”.
Ed ecco QUI il documento.

martedì 17 dicembre 2013

diffondono il niente....

 il trionfo del Cuore Immacolato di Maria sarà il vero "happy end"


 
Anche per oggi, niente happy end

Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro - il Foglio, 11 dicembre 2013

Se l’urticante “Questo Papa non ci piace” fosse stato l’incipit di un feuilleton per amanti di talari e vecchi merletti con un tocco mondano che piace anche al cattolico che piace, ora potrebbe trovare epilogo in un gagliardissimo “vissero a lungo felici e contenti”.
Dopo tanto vociare, giungerebbe puntuale un travolgente happy end per protagonisti, antagonisti, comprimari e comparse, perché il mondo cattolico d’oggi è fatto così: non ama nulla tanto follemente quanto l’unità. Erede, e se non fosse per la fede incrollabile nel divino “non praevalebunt” verrebbe da dire capolinea, di una storia cresciuta rigogliosa nel sangue dei martiri, non vuole percepire neanche l’eco del conflitto. Brama l’unità, non importa in che cosa e per far cosa, purché nessuno turbi l’acqua cheta in riva alla quale stanno tutti a godersi il pallido sole della pentecoste secolare.

Anche i villani malcreati si vorrebbe tenerli nel recinto, persino quelli che, invece di sdraiarsi sul salvettione in riva allo stagno, non riescono a trattenersi dal tirarci il sasso. Così, nel bel mezzo della polemica, quelle canaglie a prescindere che criticavano Papa Francesco, si son sentite suggerire di accomodare la questione con uno scritto su tutto il bello del pontificato in corso. Per non cadere in tentazioni scismatiche, sarebbe bastato incontrarsi a metà strada come al mercato del bestiame, dove ogni sensale stringe sorridendo la mano all’altro, convinto di averlo fregato. Oppure, a dar retta ad altri, sarebbe stata una gran cosa seguire la massima eterna e perbenino del si fa ma non si dice, opportunamente declinata nel clerical-intellettuale si pensa ma non si scrive. E per altri ancora, secondo cui fino a ieri bisognava adottare lo stile razionale e accademico di Ratzinger, oggi sarebbe meglio essere un po’ gesuiti e un po’ tangueri e domani chissà. Tutto, naturaliter, a maggior gloria di quella benedetta unità.
Come se si trattasse di una questione politica: e invece si tratta di una questione di fede. Come se si trattasse di ritirare una mozione al congresso del partito: e invece si tratta di chiarirsi in famiglia. Qui non si fa la conta delle tessere, si mettono a nudo le anime per amore di Nostro Signore, della sua croce, della Chiesa che è il suo Corpo mistico e del suo Vicario che ora si chiama Francesco.
Mettere pubblicamente in questione parole e gesti dell’autorità, specie se è tuo padre, è un atto che scuote fin nelle radici dell’anima, anche quando lo si fa in nome di una verità e di una casa di cui lui è il servus servorum.

A un padre si può dire sì per amore, per obbedienza, per riverenza, per convinzione, per convenienza e anche per debolezza o per codardia. Ma gli si dice un no cristiano e virile solo per amore. Dire sì, a volte, può essere doloroso, dire no lo è sempre. Dire sì può costare l’incomprensione di chi sta fuori dalla casa, dire di no costa sempre l’incomprensione anche di chi sta dentro. Dire di no al padre in nome del tesoro di cui è custode non è un atto di ribellione orgogliosa, ma premessa a momenti di solitudine e di dubbio in cui consola soltanto il sentirsi comunque dentro casa.

Onorare l’impegno di viri christiani assunto con il battesimo non è privo di spine. E se le spine sono sempre le stesse, invece che creare abitudine e assuefazione, producono un dolore sempre più penetrante e acuto perché sempre più consapevole e gradito. Può darsi che sia questa la prova affidata oggigiorno ai piccoli di casa che si baloccano con le storie di famiglia fatte di insegnamenti tramandati nei secoli, di riti, di preghiere e di ammonimenti. A questi bambini fa male ma non fa scandalo che il padre non si curi delle loro piccole pene e li chiami, ancora una volta, “profeti di sventura”. Continuano a mostrare le loro spine, anche se sanno di infastidire i grandi, perché questo è tutto ciò che sono capaci di fare.

I bambini sono fatti così, non fa niente se si torna ogni volta da capo e ricomincia la solita storia: “Il Concilio Vaticano II” dice Papa Francesco nella sua Esortazione apostolica “ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono ‘portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente’. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria”.

Qui giunti, riesce difficile non correre con la mente a certi passi della “Sacrosanctum Concilium”, la Costituzione del Vaticano II in cui l’autorità liturgica di Roma è stata minata con maliziose infiltrazioni di desistenza a beneficio delle esigenze locali. Si ribadiva l’uso del latino, per esempio, e subito dopo si concedeva mano libera all’introduzione del vernacolo e degli usi regionali. Ma, in tal modo, si ponevano le basi teoriche di una creatività che risponde alle esigenze della latitudine e dell’estro personale invece che alle leggi di Dio. La conseguente deriva subita in questi ultimi cinquant’anni dalla lex orandi non sembra un buon viatico per la lex credendi data in pasto alle Conferenze episcopali.
Le assemblee nazionali e regionali dei vescovi si sono trasformate in veri e propri centri di potere ecclesiale che sottraggono autorità e peso a Roma dopo aver annichilito il ruolo del singolo pastore. Aumentarne il peso in campo dottrinale implicherebbe un vulnus irreparabile per la tradizionale trasmissione della fede dal Papa al vescovo nella sua diocesi fino ai parroci e ai fedeli. Interrotta questa catena, che è a servizio della verità e quindi di ogni uomo, si sta assistendo a una sorta di nazionalizzazione del cattolicesimo: un vero e proprio ossimoro religioso, se si pensa che nazionale significa particolare e cattolico significa universale. Ogni Paese, sui temi più disparati, esprime una sua dottrina: talvolta opposta a quella di altri Paesi, non di rado diversa.

Dietro il paravento dell’inculturazione e della legittima attenzione a stili e culture, prende corpo una sorta di federalismo dottrinale. E’ difficile pensare a un progetto diverso quando si legge: “Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale”. Ma sul legame inscindibile tra cultura biblica e pensiero greco non la pensavano allo stesso modo Giovanni Paolo II nella “Fides et ratio” e Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona.

Il virtuoso adagio che vuole la lex credendi accompagnarsi alla lex orandi, di questi tempi ne fa due spine che non possono stare separate. Se nella dottrina sono stati oscurati il rigore della ragione e l’asprezza del dogma, nella liturgia sono stati censurati l’esigenza del sacrificio e lo scandalo brutale della croce. Nel pregare, come nel credere, il protagonista è diventato l’uomo, che è andato a sostituire la centralità di Dio.

Così, mentre nella Messa preconciliare centrata sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, l’uomo è chiamato a partecipare alla passione di Cristo per meritare, anche se indegno, di essere glorificato con Lui, in quella postconciliare diviene commensale di Dio al banchetto in cui celebra la propria gloria fondata sulla libertà. Nel primo caso il cristiano è chiamato a compatire con Gesù, nel secondo è invitato a collaborare con Dio. Se prima adorava, chiedeva perdono e offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio.
Non è un caso se, tra le molte parti della Messa antica eliminate nel nuovo messale, c’è quella in cui prima di salire all’altare il sacerdote si inchina a chiedere perdono come il pubblicano della parabola del Vangelo di San Luca. Lui, che presta il suo corpo a Cristo, confessa a Dio Onnipotente, alla Beata Maria sempre Vergine, al beato Michele Arcangelo, al beato Giovanni Battista, ai Santi apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi, al chierichetto inginocchiato al suo fianco, al sacrestano che ha preparato l’altare e a tutti i fedeli compresi i più barabba che ha molto peccato in pensieri, parole e opere “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”. E ha l’umiltà di farsi confortare anche dall’ultimo dei barabba che gli risponde: “Il Signore abbia misericordia di te e, rimessi i tuoi peccati, ti conduca alla vita eterna”.

Se questi, secondo i nuovi canoni, sono farisei che “dicono preghiere”, viene da chiedersi cosa sia il cristiano d’oggi, privo del senso del peccato e indotto dal nuovo rito a considerare compiaciuto: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”.
Poi, una volta uscito di chiesa, il fariseo felice di non essere come gli altri peccatori si avvia a patteggiare con lo spirito  mondano: sufficiente e orgoglioso al punto giusto. Questa spina, che i cattolici infanti hanno colto sulla pianta del Vaticano II, ha ridefinito l’antico rapporto Chiesa-mondo.
Fino al Concilio, la Chiesa sapeva di dover insegnare una dottrina ostica al vasto campo dell’umanità, che una scrittrice cattolica come Flannery O’Connor chiamava significativamente il territorio del diavolo. Era il mondo come spazio da evangelizzare, ma anche come nemico dichiarato della Chiesa, pericoloso perché impegnato da sempre a combatterla. Lo schema evocava naturalmente la militanza come categoria feriale e ineluttabile del cattolico fervente. Era un modello semplice e lineare, durato quasi duemila anni: la Chiesa insegna, il mondo in parte accoglie, in parte respinge, e così fino alla fine dei tempi.
Oggi le posizioni si sono capovolte. La Chiesa si dichiara “in ascolto” del mondo, benigna al cospetto delle sue istanze, bisognosa di imparare, di capire, di comprendere, di cambiare pelle pur di seguire la mondanità in tutte le sue evoluzioni. Scopre di possedere lo stesso sguardo, di avere lo stesso sangue e, fatalmente, si accontenta di fare un po’ di strada insieme.

Così, tenendosi per mano al mondo, senza assegnarsi più il compito di insegnare ma solo quello di accompagnare, la Chiesa prosegue senza freni nel processo di liquefazione. Intimidita da ciò che sta fuori le mura, risulta completamente inerme anche al cospetto dei tradimenti interni. Una vittima perfetta per la collaudata strategia modernista descritta da San Pio X, che non aggredisce frontalmente la dottrina, ma la erode attraverso la tecnica della diluizione.
Le verità morali o dogmatiche vengono lasciate decadere e sottaciute, svuotate di significato oggettivo, svaniscono sullo sfondo in dissolvenza, mentre pastori e teologi parlano, parlano, parlano: parlano d’altro e parlano in altro modo. Diffondono il niente sostenuto da un linguaggio approssimativo, evocativo, emozionale che ha esautorato il tradizionale e faticoso linguaggio definitorio, didattico, assertivo. Nulla è dimenticato, ma in realtà tutto è tradito in un limbo un po’ pelagiano e un po’ luterano senza essere mai veramente cattolico.

Spine come questa non sono spuntate improvvisamente con il pontificato di Papa Francesco, ma sarebbe ingenuo tacere che troppi oggi le colgono come fossero i primi fiori di un’altra primavera promessa. In un libro di quarant’anni fa, Jean Madiran definiva fin dal titolo questo fenomeno come “L’eresia del XX secolo”.
Una debacle teologica che “si basa sull’immaginario. E’ una mitologia. Non parte da una concezione falsa di natura e grazia ma da un disconoscimento radicale dell’ordine naturale, il quale porta con sé anche un disconoscimento dell’ordine sovrannaturale. Non si fonda su un aspetto della realtà svalorizzandone o sfigurandone altri aspetti: essa si trova tutta intera fuori da ogni realtà, sta in un limbo ideologico verbale. Non disconosce la realtà naturale e non si inganna: la respinge, distoglie da essa le anime per indirizzarle altrove, verso il nulla”.
Il modernismo e i suoi derivati, pur dichiarando l’obiettivo prossimo di una nuova teologia, in realtà, come ha mostrato Karl Rahner, mirano all’impossibilità della teologia. Se attaccano il termine “consustanziale” del simbolo di Nicea non lo fanno per affermare un’altra teologia della Trinità, ma per negarla e sprofondare di conseguenza in un vortice nichilista negando l’intelligibilità del reale. Se i concetti di natura, sostanza e persona cambiano a seconda delle mode filosofiche, la legge naturale finirà per non avere alcuna consistenza immutabile, diventerà espressione della coscienza collettiva. E il cerchio anticristico si sarà chiuso: niente più discorso su Dio e, di conseguenza, niente più discorso sull’uomo e niente più ordine nel mondo. Il programma della rivoluzione.

La filosofia moderna” dice Madiran “non è in essenza una filosofia, è un atteggiamento religioso al livello della religione naturale, una contro-religione naturale, l’opposto dei primi quattro comandamenti del Decalogo. Essa contesta ogni dipendenza del soggetto pensante e lo stabilisce in una aseità e in una autarchia. E se la filosofia moderna si è sempre più sviluppata nel senso di una prassi, è che non si trattava soltanto di credere o di pretendere, ma, mostruosamente, di ‘far sì’ che il soggetto pensante si facesse autonomo e indipendente. (…) la praxis moderna equivale a dire che le cose dovrebbero essere solo ciò che il soggetto pensante vuole che siano”.

Prima ancora dei fedeli, le vittime di una tale deriva della coscienza nelle lande dell’autonomia sono stati i sacerdoti.
Gettati in pasto al mondo senza poterlo abbracciare del tutto per quel “Tu es sacerdos in aeternum”, quel carattere sacramentale impresso una volta per sempre, si sono trovati improvvisamente fuori posto. Fuori sincrono finanche nell’abbigliamento che è andato scimmiottando quello secolare mantenendo un che di clericale che si percepisce anche a occhio laico. Da qui discende la crisi drammatica, fatta di copiosi abbandoni, di gravi e diffusi problemi morali, di crollo verticale delle vocazioni, di smarrimento di identità e di passione.

Non sarà certo impregnandosi dello stesso odore delle pecore che i pastori riprenderanno a guidare il gregge e a difenderlo dai lupi. Il pastore che sa di pecora, al più, può essere un onest’uomo. Ma i fedeli non possono accontentarsi di parroci che siano solo onest’uomini. L’abate Giovanni Battista Chautard in aureo libretto intitolato “L’anima di ogni apostolato” diceva impietosamente: “A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”.

Anche per oggi, niente happy end. Ma non fa niente, i bambini ci riprovano, sono fatti così.

lunedì 16 dicembre 2013

la Chiesa povera condanna Madonna Povertà?


C’era un ordine religioso che era una speranza della chiesa, composto da frati così devoti alla Vergine da chiamarsi frati dell’Immacolata: giovani (l’età media più bassa fra tutti gli ordini), in crescita numerica (altra felice eccezione), fedeli amanti di Madonna Povertà e quindi scalzi anche d’inverno, celebranti messe bellissime, alcune in latino e altre in italiano ma sempre misticissime, indossanti il saio grigio cenere che era il saio di san Francesco (nero e marrone sono colori venuti dopo), cosicché quando vedevi uno di loro camminare svelto per le vie di Firenze ti sembrava animarsi un quadro del Sassetta. Un brutto giorno l’ordine si è spaccato e la minoranza è riuscita a ottenerne il commissariamento: il commissario è stato scelto nella persona di un frate di ordine avverso e subito dopo ecco proibita la messa in latino, confinato il fondatore, esiliati i suoi collaboratori, diffusi innumerevoli comunicati dal linguaggio minaccioso e approssimativo (chi odia il latino spesso non ama nemmeno l’italiano), e infine chiuso il seminario, dispersi i seminaristi, distrutte le vocazioni, condannata Madonna Povertà e raschiato il Sassetta. Satana esiste.
 
di Camillo Langone (14 dicembre 2013)