sabato 26 gennaio 2013

i valori sono sempre negoziabili, le verità mai



i "valori", i "valori"!

Citazione:
...Come diceva Carl Schmitt, quando si comincia a parlare di «valori», si accetta il concetto di quotazione.

I valori sono, originariamente, quelli della borsa-valori, e sono per eccellenza «negoziabili».

La Chiesa proponeva «verità», merce antiquata. Oggi propone «valori», e pur sacrosanti: matrimonio, figli, no all’aborto e all’eutanasia. Come valori, purtroppo, hanno attualmente poco mercato...

Chissà, se ricordasse che chi fa certe cose si gioca l’eterna dannazione, magari... O magari no. Questo popolo si contenta del suo destino zoologico.


http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=226225&Itemid=136

venerdì 25 gennaio 2013

Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?

Monumento ad Alessandro Magno (Skopje - Macedonia)
Augustinus Hipponiensis
De Civitate Dei contra paganos libri XXII
Liber IV
Latrocinia sunt regna et piratarum infestatio.
4. Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? quia et latrocinia quid sunt nisi parva regna? Manus et ipsa hominum est, imperio principis regitur, pacto societatis astringitur, placiti lege praeda dividitur. Hoc malum si in tantum perditorum hominum accessibus crescit, ut et loca teneat sedes constituat, civitates occupet populos subiuget, evidentius regni nomen assumit, quod ei iam in manifesto confert non adempta cupiditas, sed addita impunitas. Eleganter enim et veraciter Alexandro illi Magno quidam comprehensus pirata respondit. Nam cum idem rex hominem interrogaret, quid ei videretur, ut mare haberet infestum, ille libera contumacia: Quod tibi, inquit, ut orbem terrarum; sed quia ego exiguo navigio facio, latro vocor; quia tu magna classe, imperator.
Cf. Cicerone, De rep. 3, 14, 24.

Traduzione italiana:
Ingiustizia e violenza degli stati e dei briganti.
4. Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l'aggiungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Stato che gli è accordato ormai nella realtà dei fatti non dalla diminuzione dell'ambizione di possedere ma da una maggiore sicurezza nell'impunità. Con finezza e verità a un tempo rispose in questo senso ad Alessandro il Grande un pirata catturato. Il re gli chiese che idea gli era venuta in testa per infestare il mare. E quegli con franca spavalderia: "La stessa che a te per infestare il mondo intero; ma io sono considerato un pirata perché lo faccio con un piccolo naviglio, tu un condottiero perché lo fai con una grande flotta"

 MONTE PASCHI, LODEN E FINANZA CIALTRONA. 

OLTRE OGNI PUDORE 

 di Paolo Deotto
 tratto da: http://www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2146:monte-paschi-loden-e-finanza-cialtrona-oltre-ogni-pudore-di-paolo-deotto&catid=54:societa-civile-e-politica&Itemid=123

Vedremo come andrà a finire. Per ora l’unica cosa sicura, inevitabile, certissima, è che ancora una volta sarà il cittadino italiano a pagare il conto per quanto combinano i mascalzoni che spadroneggiano ai vertici dello Stato e della finanza, che ormai lavorano a “reti unificate”, armoniosamente in collaborazione, o, per meglio dire, in combutta.
Il Loden sta ormai perdendo il controllo. Lo si è visto da come si muove goffamente, rifugiandosi in una risentita spocchia con cui riempie i vuoti mentali della sua “campagna elettorale”. Forse agitato perché si rende conto che i suoi mandanti stanno per sfilargli il grembiulino con cui finora ha coperto le sue vergogne, anche sulla sordida vicenda del Monte Paschi ha mostrato le sue caratteristiche principali: incapacità, goffaggine, accompagnati da una sterminata presunzione, e dalla convinzione che il popolaccio italiano sia composto solo da cretini.
Il popolaccio italiano rischia di arrabbiarsi sul serio. Il governo dei massoni gli ha rovinato la vita, gli ha sfilato i soldi di tasca, lo ha martellato con l’iniqua imposta sulla casa, e poi, guarda che coincidenza, ha deciso di beneficiare una Banca a conduzione Banda Bassotti proprio con lo stesso importo appena sfilato dalle tasche degli italiani, colpevoli di possedere l’abitazione in cui vivono, spesso acquistata con sacrificio.
Ma gli italiani sono tutti cretini, pensa il Loden, e afferma, con l’aria di granduca annoiato che getta pillole del suo Immenso Sapere ai servi della gleba, che “non c’è alcun nesso tra l’Imu e il prestito al Monte Paschi”.
Siamo ben oltre i limiti del pudore. Il dittatorello che ha distrutto la Previdenza, che serenamente pianifica la distruzione della Sanità, che ha ingigantito quel debito pubblico che avrebbe dovuto abbassare, che ha portato il peso fiscale oltre i limiti del sopportabile, che ha distrutto il lavoro, che ha fatto tutto ciò, dice lui “per salvare gli italiani” (forse perché chi muore cessa di soffrire), non ha avuto problemi nel correre a soccorso di una Banca la cui conduzione, adesso, si scopre che è stata sciagurata. Ci vuole un’eccezionale faccia di bronzo per bollare come “calunniatori” e “speculatori politici” quanti fanno oggi notare che con l’Imu si è soccorso il Monte Paschi. Non è una congettura, è semplice e banale matematica, materia che chi ha tanta confidenza con squadra e compasso dovrebbe ben conoscere.
Entrano 4 miliardi, escono 4 miliardi. Quasi ottomila miliardi delle vecchie, care, lire. Ma non è finita. Da un lato il prestito prevede un interesse da strozzini, il 9%, ma d’altro lato l’eventuale mancato rimborso sarà sanato con azioni del Monte Paschi. Insomma, lo Stato, che poi saremmo noi, cittadini italiani, e non i cialtroni che pro tempore si allineano alla greppia, si ritroverà azionista di un Istituto di Credito decotto.
Come sempre, quando vien fuori il bubbone, si scopre che tutti sono verginelli. Il Tesoro fa sapere con sdegno che la vigilanza spetta alla Banca d’Italia, ma la Banca d’Italia fa sapere che la precedente dirigenza del monte Paschi nascose dei documenti. Che bello. Se ne deduce che la “vigilanza” si traduce nel fatto che la Banca d’Italia chiede alla Banca Tal dei Tali: “Va tutto bene?”, e se quelli rispondono “Sì”, tutto è posto e tutti sono contenti. Napolitano ovviamente non può stare zitto e ci fa sapere che lui ha fiducia in Bankitalia. E chi se ne frega? Capirai cosa possa valere la sua fiducia: aveva fiducia anche nei carri armati sovietici…
Ci sono voluti anni e anni per accorgersi che una Banca delle dimensione del Monte Paschi stava affondando? E che fine ha fatto l’inchiesta sullo stranissimo acquisto della Banca Antonveneta, pagata quasi il doppio del suo valore, anche se era già piena di debiti? E che senso aveva acquistare una montagna di debiti, da sommare ai propri? E’ vero che il Monte Paschi ha crediti in sofferenza a livelli ben superiori a quelli di sicurezza?
Almeno i vecchi, sani, pirati di una volta, andando all’arrembaggio rischiavano di beccarsi un colpo di archibugio da qualche marinaio della nave a cui davano l’assalto. Oggi non è così. I pirati continuano gli arrembaggi, ma si sono costruiti prima il sistema di leggi, regolamenti, circolari, protocolli, con cui tutelarsi.
Leggete un istruttivo articolo di Marcello Foa, sul suo blog “Il cuore del Mondo”. L’articolo è intitolato “Banche: cittadino, apri gli occhi!”.
In fondo a tutta la piramide, schiacciato dalla turba dei mascalzoni e dei loro complici e lacchè, c’è sempre lui, il cittadino italiano, considerato poco più che un fesso, che deve credere, obbedire, combattere, per la maggior gloria e pancia piena di lorsignori.
Il Loden in questi giorni è a Davos, a uno di quei periodici incontri in cui la cosiddetta Alta Finanza celebra sé stessa. E' andato a spiegare per l’ennesima volta come lui, solo lui, ha salvato l’Italia. Da Davos ha respinto con sdegno il parallelo tra Imu e Monte Paschi. Non ha alcuna importanza che la matematica dimostri la sua menzogna e il suo torto marcio. Il Loden doveva respingere, perché al popolaccio non è concesso guardare e giudicare. Il popolaccio ha torto, anche se ha ragione. Il governo è compito degli illuminati.
Siamo oltre ogni pudore, ma siamo anche oltre ogni elementare capacità di intelligenza. Il Gran Mediocre, incapace di resistere al piffero del potere, ha fatto l’errore di voler “salire” (come dice lui) in politica. I capi-grembiulini non hanno approvato, e infatti le prime rampogne sono arrivate, guarda caso, proprio da quel Regno Unito, culla della massoneria. Ma il Gran Mediocre è ormai prigioniero del sogno, è convinto di essere un grand’uomo e mostra sempre più irritazione per chi ha l’ardire di voler giudicare il suo operato.
Si tranquillizzi. La rapina dell’Imu a favore dei rapinatori del Monte Paschi è stata l’ennesima goccia. Forse non è l’ultima, perché sembra che il vaso che contiene le acque putride abbia un’eccezionale capacità di carico. Ma a tutto c’è un limite, e ci siamo vicinissimi. Come siamo vicinissimi al 24 febbraio. Il popolo italiano non è composto di cretini e lo dimostrerà mandando a casa con sacrosanti calci nel sedere questa Banda di Cialtroni.



XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013. Resoconto di Cristina Siccardi – (terza e ultima parte)




XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013. Resoconto di Cristina Siccardi – (terza e ultima parte)

resoconto di Cristina Siccardi
(terza e ultima parte - per leggere la prima parte, clicca qui , per leggere la seconda parte, clicca qui)




Dopo il problema del metodo deve essere affrontato il problema dell’azione, ossia della prassi e Turco pone dei quesiti: «La prassi costituisce un criterio, oppure richiede (necessariamente) un criterio? Esiste una prassi neutrale rispetto ai valori? Oppure essa è intimamente congrua o incongrua rispetto ai fini? Il primato spetta alla prassi oppure alla teoresi?».
Il razionalismo moderno presuppone l’atto del cogitare indipendentemente dal suo contenuto. In tal senso da Cartesio ad Hegel (fino al pragmatismo contemporaneo) il pensiero si identifica con la sua attività. L’essere ne costituisce un risultato e non il fondamento. La realtà si muta in effettualità, ovvero in complesso di effetti dell’attività. Questa, nella «corsa alla coerenza» dell’immanentismo moderno, diviene l’attività del tutto (degli effetti), che si identifica con il nulla (delle determinazioni).
«Esemplarmente, per Berkeley l’essere delle cose deriva dall’attività del soggetto percipiente: esse est percipi. Per Kant è attraverso l’attività del conoscente che si costituisce il conosciuto, in quanto fenomeno. Per Hegel, l’Assoluto è soggetto e non è sostanza: si identifica con il suo divenire, ovvero con la sua attività dialettica».
Il primato della prassi, affermato dal marxismo, ed il primato della libertà teorizzato dall’esistenzialismo e dal personalismo costituiscono le coerenti conseguenze delle premesse del razionalismo moderno. Il primato della prassi è il primato dell’attività trasformatrice, del produttivo e, quindi, dell’economico. È il primato dell’attività sulla realtà. È il primato della libertà sulla verità. È il primato dell’efficacia sul valore. Il primato della prassi risolve ogni cosa in un risultato attivo e fa della prassi stessa una categoria autonoma, anzi la categoria delle categorie. Ecco che «attivismo», «prassismo», «pastoralismo» vengono ad assumere nel Vaticano II un’importanza di primo piano.
«L’immanentismo prassistico fa coincidere contraddittoriamente mezzo e fine: nega la strumentalità della prassi per identificarla con la sua stessa misura. Pone la verità in dipendenza della prassi. Fa del valore un risultato della prassi. Fa dell’efficacia il criterio della verità. Come è proprio di ogni forma di pragmatismo, che giudica la verità dal successo, e non viceversa».
Nel pensiero classico, pensiero che si coniuga in ogni tempo e ad ogni stagione, è la retta ragione ad essere misura dell’agire e non viceversa. «Nulla dell’agire può essere sottratto alla valutazione del vero e del bene. Non vi è alcuna forma di agire che sia autonoma rispetto al vero e al bene, neppure quella professionale o quella pastorale».
La terza questione affrontata dal docente di Udine è quella della contemporaneità e della modernità. «Come è possibile leggere in alcuni tra i documenti più rappresentativi del Concilio Vaticano II – ed in tal senso indicativi dell’intenzione e delle premesse soggiacenti – esso intende rivolgersi agli “uomini d’oggi”, presupponendo la consistenza propria di tale nozione. Parimenti, tali testi hanno come sfondo il “mondo contemporaneo”. Con la pretesa di rappresentare la “condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo” e le caratteristiche più rilevanti di quest’ultimo. Fino a giungere ad affermare che “nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone” .
Ora, proprio la pretesa di individuare sotto il profilo tipologico una fisionomia inconfondibile della contemporaneità, identificata con una rappresentazione antropologica, sociologica e storiologica evidenzia da una parte precisi presupposti teorici e dall’altra pone ineludibili problemi filosofici. Tale impostazione pretende di ridurre l’umano all’antropologico, il sociale al sociologico, lo storico allo storiologico. Presume, cioè, senza argomenti (e senza poterli fornire) di ridurre la realtà (dell’uomo, della società e della storia) alla sua rappresentazione, ottenuta attraverso la tipificazione di generalizzazioni empiriche (quando non si tratti di apriorismi ideologici impliciti)».
La possibilità di fissare la fisionomia dell’uomo contemporaneo sottende la pretesa di conferire realtà autonoma ai caratteri accidentali, considerando così il transeunte come permanente e l’apparente come per se stesso consistente. La tesi della mutazione antropologica dell’«uomo contemporaneo» sottende obiettivamente la negazione della permanenza della natura umana, quindi della sua universalità. Se tale mutazione fosse reale, la stessa natura umana ne risulterebbe vanificata nella sua consistenza ontologica. «Bisognerebbe derivarne l’incomunicabilità dell’umano, circoscritto come tale alla sua tipizzazione attualizzante, e la relativizzazione dei valori, almeno nella loro congruità (effettuale) con l’ “oggi”».
La contemporaneità non è la misura di se stessa. «Di essa si può ben osservare quanto sant’Agostino notava del tempo: sembra un dato evidente quando non lo si faccia oggetto di riflessione, ma appena ci si chiede che cos’è esso appare assolutamente arduo a definirsi. La contemporaneità, pur sembrando evidente, in realtà non lo è affatto. A rigore solo l’istante è contemporaneo di se stesso. Ma tale contemporaneità, proprio in quanto tale è inafferrabile e perciò indicibile. Anzi, l’istante contemporaneo a se medesimo non è che l’effimero: ciò che non dura e non può durare. Ciò che si dissolve di fronte all’incalzare di un nuovo istante. Ciò che è attuale senza essere permanente, è semplicemente effimero». La profondità del pensiero filosofico di Turco apre squarci di illuminante valore dove si comprende, alla fine, l’inconsistenza dei termini «moderno» e «contemporaneo». Se per «tempo si intende – realisticamente – come durata (di ciò che è soggetto al divenire), il contemporaneo di nulla è criterio. Esso trova la sua misura nell’eterno. L’attuale nell’universale. Il transeunte nel permanente. Lo storico nel tradizionale. Il fluire del tempo è degno di essere riscattato dall’oblio, in ragione dei valori che esso reca in sé, grazie allo scrigno della memoria. Sicché la continuità tra le generazioni attraversa gli avvenimenti. Né il passato né il futuro sono irrigiditi in una fissità che li rende ostili al presente, ma essi sono sempre, in qualche modo, presenti al presente. In esso si raccolgono. A partire da esso il passato si prolunga – attraverso la responsabilità dell’agire – nel futuro. Senza cesure ontologiche, nel bene o nel male di ciò che è deciso ed attuato».
L’essenza della modernità, come ha evidenziato la rigorosa analisi di Cornelio Fabro, è costituita dal principio d’immanenza. E proprio sul pensiero e sul mondo moderno il Concilio Vaticano II ha voluto fare i conti, conti che si sono dimostrati spesso effimeri proprio a causa della fugacità del concetto di modernità. Fabro ha rilevato che «il pensiero moderno è tutto accentrato sulla autonomia della coscienza, che è detto principio della libertà, principio dell’autocoscienza, principio dello spirito». In altri termini, la modernità «nella sua accezione propria è legata alla dialettica rigorosa del principio d’immanenza che ha avuto per esito la morte della filosofia con l’espulsione o nientificazione del problema della verità».
L’ultimo problema esposto riguarda «dall’interpretazione all’esegesi». I problemi filosofici di fronte ai quali si è trovato il Concilio Vaticano II e che si profilano attraverso i suoi stessi testi «fanno emergere una questione filosofica non solo ad extra ma anche ab intra». Si tratta di questioni interne alla stessa «lettura» dei testi, e non semplicemente di interpretazioni ad essi estranee. Proprio per questo i problemi emergono, al di là di qualsiasi interpretazione ed attraverso qualsiasi interpretazione. Ecco allora l’estrema necessità di analizzare con attenzione i testi per farne emergere le risposte, ma anche le domande e «cercarne senza infingimenti le soluzioni. Le quali potranno essere appropriate solo se vere, e non viceversa».
Emblematico risulta il caso della Nota esplicativa previa alla Costituzione Lumen Gentium e la nota 1 al Proemio della Costituzione Gaudium et Spes. Siamo di fronte ad un parossismo: un documento che dovrebbe chiarire una dottrina è ritenuto, a sua volta, bisognoso di un chiarimento, attraverso una nota esplicativa del documento stesso: «segno evidente della necessità di precisare criteri per intendere un testo che per la sua stessa natura dovrebbe fornire dei criteri».
L’agire non giustifica l’agire, pertanto la pastorale o la normativa non giustificano se stesse. Senza il fondamento nella verità, naturale e soprannaturale, «si avrebbe (anche con le migliori intenzioni) solo una prassi totalmente dipendente da risultato, quindi una prassi nichilista. Non la circolarità ermeneutica (per se stessa mai definitiva, e quindi sempre precaria) né la condivisione sociologica (per se stessa puramente accidentale, e sempre mutevole), ma solo il suo valore di verità regge l’interpretazione retta. Ma a tale condizione, l’interpretazione neppure è più propriamente interpretazione, ma esegesi, ovvero, in sostanza, lettura della realtà. Nessuna interpretazione può convalidare se stessa, a partire da se stessa. Anzi, a rigore, finché resta nell’orizzonte dell’interpretazione, non riesce a trascenderlo e si pone sul piano di qualunque altra. Restando nel labirinto delle interpretazioni, ci si impedirà ogni possibilità di uscita. Inoltre il fondamento dell’autorità è la verità, pertanto l’ordine del bene, e non viceversa. «Se il problema dei testi è ricondotto alla questione dell’interpretazione, esso è spostato senza essere risolto. L’interpretazione, infatti, rinvia al criterio in base al quale essa è valida (e quindi preferibile rispetto ad ogni altra). Sotto il profilo epistemologico, ogni interpretazione, in quanto tale, è sullo stesso piano di qualsiasi altra interpretazione. In sostanza ogni interpretazione è una sovrapposizione. Essa cioè si sovrappone al testo e lo riferisce all’interprete. L’interpretazione subordina l’interpretato all’interpretante. Il testo perde in certa misura la sua obiettività per convertirsi in strumento dell’interpretazione medesima, attraverso la quale il testo diviene, in certo modo, altro da sé. Talché il criterio si sposta dall’oggetto al soggetto, dall’interpretato all’interpretante. Fino a dovere riconoscere che, nel circuito dell’interpretazione, non possono non esserci tante interpretazioni quanti sono gli interpreti».
Diversamente dall’interpretazionismo moderno san Tommaso d’Aquino insegna che l’unica interpretazione valida è quella vera e non ve ne sono altre, e non dipendono dalle intenzioni dell’interprete, ma dal significato che esso reca in sé. Il ragionamento è cristallino: «Avendo la verità (naturale e soprannaturale) come misura, è possibile evitare ogni ibridismo epistemologico, come quello che – nell’interpretazione dei testi del Vaticano II – presume di individuarne la cifra nella “sintesi di tradizione e di aggiornamento”. Tali termini, infatti, manifestano un carattere obiettivamente anfibologico: possono cioè assumere, restando (morfologicamente) immutati, significati diversi ed opposti».
Solo passando dall’interpretazione all’esegesi possono essere affrontati i problemi senza nasconderli: la via dell’esegesi è la via del primato della verità, «diversa dalla pretesa di un’obbedienza che surroga la verità e che, come tale, svuota di verità l’obbedienza stessa, mutandola in esecuzione». È la via che esclude ogni «divieto di fare domande», tipico del razionalismo totalizzante delle ideologie; è la via epistemica capace di affrontare le questioni in maniera definitiva. «Solo l’esegesi può consentire di chiarire i termini per se stessi, di cogliere presupposti impliciti e di indagarne la consistenza (quindi la verità), di saggiare la coerenza (o meno) delle argomentazioni, di formulare (ove si rendano necessarie) integrazioni e correzioni».

L’Abbé Yves le Roux ha spiegato come tutti i Concili ecumenici sono stati indetti affinché la Chiesa rispondesse a dei problemi e ciò ha comportato approfondimenti dottrinali e conseguenti definizioni dogmatiche sui punti controversi con un preciso rilancio dell’azione pastorale, tesa a riguadagnare il terreno perduto. La convocazione di un Concilio è sempre meditata, dolorosa, sofferta in quanto viene riconosciuta una ferita, una crisi all’interno della Chiesa, alla quale bisogna rispondere. Il Concilio Vaticano II, invece, per espressa dichiarazione di Giovanni XXIII, che lo ha convocato, è il frutto di un’illuminazione istantanea, carica di ottimismo. Anzi la Chiesa è percepita dal Papa come particolarmente forte, addirittura in grado di portare aiuto al mondo in una fase di trapasso che il Concilio dovrà accelerare al fine di creare una società di pace e di giustizia sulla terra. La conseguenza è che non ci saranno più né definizioni dottrinali da dare, né errori da condannare. Sarà il primo Concilio di «bell’esempio». Una novità fu quella dell’introduzione degli osservatori acattolici all’interno del Concilio. Anche Pio IX li aveva invitati, ma nel Vaticano II essi assumono un ruolo assolutamente attivo e propositivo.
Una mansione abnorme sarà assunta dai periti: una grande quantità di Vescovi impreparati saranno in balia dei loro esperti; diventerà addirittura il «Concilio dei periti», come sarà definito dai giornalisti.
Altra differenza assoluta con i precedenti concili è stata la funzione assunta dai mezzi di comunicazione di massa, che sono stati determinanti nel dirimere le questioni conciliari e nell’indirizzare l’opinione pubblica. Come non pensare, allora, al Cardinale Suenes, che parlava spesso con i giornalisti? In tal modo, accattivandosi la stampa, egli otteneva il favore mediatico per sé e per le idee che esponeva al Concilio, per esempio quelle riguardanti la libertà religiosa.

L’Abbé Jean-Michel Gleize ha spiegato che esiste un Magistero, ma ci sono due concezioni di Magistero. Ha iniziato il suo argomentare teologico spiegando che la Rivelazione divina può essere intesa in due sensi: «Dio si manifesta liberamente e in maniera soprannaturale al genere umano, che consiste nella visione dell’essenza divina che ci parla attraverso i profeti dell’Antico Testamento e per mezzo di Cristo, comunicando alla nostra intelligenza la conoscenza dei misteri soprannaturali della fede e delle verità naturali della religione. Il secondo senso della Rivelazione è il depositum, ossia l’insieme delle verità oggettive comunicate nella Rivelazione in senso attivo e registrato nelle fonti sia scritte che non».
La Chiesa può essere intesa in due sensi: «Nel primo senso la Chiesa si definisce come l’insieme di tutti i fedeli battezzati, che sono membri della stessa società cattolica. Nel secondo la Chiesa si definisce nella sua causa formale come un insieme ordinato, secondo una relazione di dipendenza fra i pastori e il gregge, ovvero fra i membri della gerarchia che governa, insegnando e santificando in virtù della missione divina ricevuta da Cristo e l’altra parte dei semplici fedeli battezzati». San Pio X nel giuramento anti-modernista utilizza questi termini: «Io credo anche fermamente che la Chiesa è stata istituita da Cristo come la custode e la maestra della Parola rivelata» e Leone XIII spiega nell’Enciclica Satis cognitum le ragioni di questa espressione: è nella gerarchia che la Chiesa è maestra e custode della Parola di Dio. Gli Apostoli, infatti, consacrando dei vescovi e designandoli nominativamente conferiscono loro la carica e la missione d’insegnare. La responsabilità della gerarchia è, dunque, immensa. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica nel 2005 n ° 15 dice che il deposito della fede è affidato a tutta la Chiesa, chiamata a trasmettere la verità. Nella Esortazione Verbum Domini Papa Benedetto XVI ha detto che «La Parola di Dio ci ha dato la vita divina che trasfigura la faccia della terra, facendo nuove tutte le cose (cfr Ap 21, 5). La Sua Parola ci rende non solo i destinatari della rivelazione divina, ma i suoi messaggeri», pertanto la missione di annunciare la Parola di Dio è il compito di tutti i discepoli di Gesù Cristo, come conseguenza del loro battesimo. Ha affermato l’Abbé Gleize: «Nessun credente in Cristo può sentirsi estraneo alla responsabilità che deriva dalla appartenenza al Corpo sacramentale di Cristo. Questa consapevolezza deve essere risvegliata in ogni famiglia, parrocchia, comunità, associazione e movimento ecclesiale. La Chiesa come mistero di comunione è missionaria e ciascuno, secondo il suo stato di vita, è chiamato a dare il suo contributo» di servizio come Chiesa, istituzione divina voluta da Cristo, dove il ruolo della Tradizione, inteso come trasmissione, è fondante. La gerarchia è chiamata ad esercitare il Magistero per insegnare con l’autorità di Dio e i fedeli ricevono questo insegnamento del Magistero. Il Vaticano II «si propone di istituire una nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno», è questo il grande problema perché «la dottrina della fede è stata presentata in modo tale da rispondere alle esigenze del nostro tempo».
Attenzione, dunque, alle due concezioni di Magistero: quello che procede per via della ricerca scientifica, mirando a scoprire nuove verità, che si fa portavoce della Comunità e che traduce le moderne intuizioni in linguaggio concettuale, e il Magistero ecclesiastico, che non ha lo scopo di scoprire nuove verità, ma trasmette sempre la stessa identica verità rivelata. Il fondatore di questo Magistero è Cristo che ha chiamato i suoi discepoli ad attestare la verità, quella che si tramanda, attraverso l’insegnamento della e nella Tradizione, per via Apostolica. L’atto del Magistero ecclesiastico (dove si concretizza l’unità di tempo e spazio dell’educazione religiosa) non può né proclamare l’errore, né negare o semplicemente mettere in dubbio la verità già proclamata. «I frutti del Magistero pastorale inaugurato dal Concilio Vaticano II ha determinato una diffusa protestantizzazione della Chiesa e una considerevole diminuzione di fede». Nel Vaticano II è emersa una docenza diversa rispetto alla Tradizione e la progettazione dell’insegnamento ecclesiale che è maturato in questi 50 anni è profondamente cambiata rispetto al preconcilio e va di pari passo con un nuovo concetto di Rivelazione (quella storicistica), di Chiesa e di Tradizione, dove l’orizzontale ha preso il sopravvento sul verticale, l’immanente sul soprannaturale. Insomma «l’insegnamento del Vaticano II obbedisce a una logica diversa», quella dell’immanenza, «una logica completamente nuova, estranea alla definizione del Magistero cattolico» e questa nuova logica prevale all’interno della Chiesa e propone una concezione di insegnamento che segue un indirizzo soggettivistico, chiaro frutto della malattia che ha colpito la Chiesa e il Magistero: il Modernismo, il liberalismo, che sono stati introdotti «come un parassita o un corpo estraneo (un “Alien”) nel corpo della Chiesa. Ci auguriamo che questo mostro finirà per essere rimosso. E Pietro, alla fine, sarà liberato da queste catene, poiché la soluzione sta in quel: “Tu es Petrus et super hanc Petram aedificabo Ecclesiam Meam”».

La giornata di sabato 5 gennaio è stata chiusa dall’Abbé Alain Lorans, il quale ha affermato che nessuno può negare il fatto che esista una crisi della Chiesa, ma tale constatazione deve essere vista dai cattolici alla luce della fede. A differenza di tutti i Concili precedenti, il Vaticano II è stato il Concilio che ha invocato «l’aggiornamento», ossia l’adattamento della Chiesa al mondo moderno. Di fatto si è impedita la vera riforma della Chiesa che non è altro che instaurare omnia in Christo, ripristinando tutte le cose in Lui.
Come giustamente ha scritto Romano Amerio in Iota Unum: «Il mondo rifiuta la dipendenza tranne nei confronti di se stesso. La Chiesa sembra aver paura di essere respinta» da esso, allora cerca di scolorire le sue particolarità meritorie e di colorare i tratti che ha in comune con il mondo moderno, un mondo che si autocelebra nel cosiddetto «progresso umano».
Domenica 6 dicembre, giorno dell’Epifania di Nostro Signore, dopo una bellissima Santa Messa Pontificale celebrata da Monsignor Bernard Fellay a Saint Nicolas du Chardonnet nel cuore di Parigi, dai cui muri secolari trasuda il patrimonio cattolico-romano di una fede tramandata di parroco in parroco, di padre in figlio, il Superiore della Fraternità San Pio X ha chiuso i lavori del Congresso teologico facendo un bilancio complessivo: dopo 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II la risposta della Fraternità, voluta dal Vescovo Monsignor Marcel Lefebvre nel 1970, continua ad essere la stessa, quella che il padre fondatore ha ricordato fino all’ultimo suo respiro, citando san Paolo: «Tradidi quod accepi» («Ho trasmesso quello che ho ricevuto»). Inoltre Monsignor Fellay ha esortato i presenti a porre la Santa Messa al centro di tutto, perché ogni cosa deriva ​​da questa inesauribile fonte. «Tutto nella vita cristiana deriva dal Sacrificio di Nostro Signore sulla Croce, rinnovato nella Messa, proprio qui troveremo la soluzione a questa crisi. La pastorale vera sta nel Santo Sacrificio e soltanto tale “pastorale” conduce le anime a Cristo». Questo lo spirito cristiano e noi «dobbiamo vivere la grazia di nostro Signore. Questa è la cura. Il sacerdote deve diventare un altro Cristo», dunque salire all’altare in persona Christi. Non è sufficiente, ha dichiarato il Vescovo, avere una tonaca e celebrare la messa in latino; il sacerdote è chiamato all’imitazione di Gesù Cristo e tale imitazione sarà il rimedio, una cura «essenzialmente soprannaturale». Egli ha poi toccato il problema esistente tra la FSSPX e Roma, che, dopo i colloqui dottrinali, è ritornato al punto di partenza. «La soluzione proposta dalla Fraternità è quella di san Vincenzo di Lerins»: se la Chiesa è malata ha bisogno di cure e la terapia si chiama Tradizione. «Cosa fare ora? Lasciare la Chiesa? Certo che no! Non vi è alcuna altra chiesa che la Chiesa cattolica! La Chiesa è nostra madre, è malata, ma è la Chiesa fondata da Nostro Signore, il quale ha promesso che le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Non abbiamo mai inventato una chiesa per noi! Non resta che pregare, invocare la grazia e compiere ognuno il dovere del proprio stato. Chiediamo a san Giuseppe, protettore del Bambino Gesù, di proteggere la Chiesa. È per questo che il 19 marzo prossimo consacreremo a lui, ad Écône, la Fraternità San Pio X».

(Fine)

mercoledì 23 gennaio 2013

XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013. Resoconto di Cristina Siccardi – (seconda parte)

XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013.
resoconto di Cristina Siccardi
(seconda parte - per leggere la prima parte, clicca qui)

Alessandro Fiore ha chiuso il primo giorno compiendo una esaustiva rassegna sui dibattiti e sulle pubblicazioni sul Concilio Vaticano II che in questi ultimi anni hanno caratterizzato il panorama intellettuale italiano, sollecitato anche dal celebre discorso del 22 dicembre 2005 di Benedetto XVI alla Curia romana quando il Sommo Pontefice parlò delle diverse ermeneutiche dell’Assise.
Il 2009 è stato definito «l’année Gherardini», nel marzo di quell’anno, infatti, uno dei teologi più grandi della contemporaneità, Monsignor Brunero Gherardini, ha pubblicato il celebre libro Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, dove l’autore, con approfondite argomentazioni ha posto in evidenza l’importanza di mettere sul tavolo la questione Concilio, e da allora ha pubblicato altri libri dello stesso tenore. Il suo appello non è rimasto senza risposta: nel dicembre 2010 la congregazione dei Francescani dell’Immacolata ha organizzato un importante Congresso di studi sul Concilio Vaticano II, dove sono intervenuti Padre Serafino Lanzetta, Monsignor Luigi Negri, Monsignor Brunero Gherardini, i professori Yves Chiron e Roberto de Mattei, Monsignor Athanasius Schneider, don Nicola Bux, padre Florian Kolfhaus e il Cardinale Velasio De Paolis.
Nel 2011 è stato pubblicato Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta di de Mattei che con innumerevoli documenti è stata ricostruita la storia dell’Assise, documenti che dimostrano la volontà di un chiaro spirito di rottura con la Tradizione della Chiesa. Nello stesso anno don Pietro Cantoni, che venne ordinato sacerdote da Monsignor Lefebvre ed ebbe come maestro all’Università Lateranense Monsignor Gherardini, ha scritto il libro Riforma nella continuità. Vaticano II e l’anticonciliarismo per rispondere polemicamente alle affermazioni di Gherardini nel tentativo di dimostrare la continuità del Vaticano II con la Tradizione della Chiesa alla luce dell’ermeneutica della riforma nella continuità proposta da Benedetto XVI. Il testo ha naturalmente suscitato la reazione del maestro Gherardini, attaccato personalmente dal suo antico allievo, reazione che ha prodotto un nuovo libro dell’insigne teologo, dal titolo Il Vaticano II. Alle radici d’un equivoco. Nel mese di ottobre Roberto de Mattei ha pubblicato Apologia della Tradizione, dove l’autore fa notare come in più episodi della storia della Chiesa ci si è opposti alle decisioni e agli insegnamenti delle autorità ecclesiastiche in nome della Tradizione. Nel 2012 padre Lanzetta, teologo dei Francescani dell’Immacolata, ha pubblicato Iuxta modum. Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione della Chiesa, dove sottolinea la necessità di ricondurre il Concilio nel suo giusto alveo, togliendo quel marchio di «superdogma» che gli è stato esageratamente imposto.
Il dibattito sul Concilio Vaticano II, ha ancora affermato Fiore, si svolge anche su Internet, dove si possono trovare molti articoli di diversi autori. È indubbio che ci sia stata una benefica influenza delle discussioni tenute tra la Fraternità San Pio X e Roma sui dibattiti del Concilio. Lo storico della Chiesa Giovanni Miccoli, di chiare simpatie progressiste, ha scritto un libro La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma; l’autore mostra la sua preoccupazione per un’operazione a Roma di restaurazione contro i progressi del Concilio, utilizzando lo strumento della FSSPX, Fraternità peraltro elogiata da Monsignor Gherardini nel suo saggio Quod et tradidi vobis. Anche il domenicano padre Giovanni Cavalcoli con il suo libro Progresso nella continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del post-concilio ha affermato di voler offrire un contributo utile alle discussioni fra Roma e la Fraternità stessa. «Si può dunque dire che la Fraternità gioca un ruolo molto importante per fare avanzare il dibattito, per animare una discussione costruttiva, per esporre pubblicamente le sue posizioni e per avvalorare la sua stessa esistenza». È chiaro che si è ormai aperta una strada che non potrà più essere chiusa, una via che si oppone all’idea di un Concilio carismatico e mistico di chiara impostazione soggettivistica, che tende a mitizzare, se non ad adorare, il Vaticano II a discapito di tutti gli altri Concili della storia. Nelle considerazioni conclusive Fiore ha affermato che il «Concilio Vaticano II non è più “intoccabile”, non è più un super-Concilio. Anche al di fuori del tradizionalismo si notano sempre più le carenze», certi teologi non esitano a formulare delle critiche radicali e coloro che vogliono difendere a tutti i costi l’ortodossia del Concilio spesso ammettono le deficienze del piano pastorale, ovvero del livello specifico del Vaticano II, che ha mancato la sua finalità propria e ha formulato delle attestazioni ambigue. Don Cantoni, per esempio, nel suo libro Riforma nella continuità. Vaticano II e anticonciliarismo, riconosce che nei documenti non è stato detto nulla circa i pericoli del laicismo degli Stati. Padre Lanzetta parla sia di un certo «pluralismo contraddittorio» nel Concilio, dove non sono chiari i limiti della pastoralità e della dogmaticità, sia di discontinuità teologiche. Padre Kolfhaus rimarca l’ottimismo dei padri conciliari che hanno rinunciato alle definizioni dottrinali e alle solenni condanne. Padre Cavalcoli ammette che il linguaggio del Concilio manca di precisione, univocità e chiarezza «che si trova nei Concili precedenti», un linguaggio che ha finito per dividere in qualche modo la Chiesa. Alessandro Fiore ha ancora affermato che il «Vaticano II è un Concilio “mancato”: voleva essere pastorale, e non è stato pastorale. In generale si percepisce un bisogno sempre più grande di chiarezza dottrinale dopo la confusione creata dal Concilio e il dopo Concilio». Monsignor Gherardini supplica il Santo Padre di mettere chiarezza in quale misura il Concilio è stato fedele alla Tradizione; padre Lanzetta desidera un documento metafisico-dogmatico del Magistero per definire l’interpretazione corretta del Concilio; Monsignor Schneider ha proposto un Sillabo degli errori circa l’interpretazione del Concilio Vaticano II; de Mattei sottolinea l’urgente necessità di un nuovo Sillabo o di una nuova Professio fidei. «È chiaro che le discussioni teologiche dureranno ancora per molto tempo, ma a me sembra, ed è quello che volevo dimostrare, che diventiamo sempre più consapevoli, almeno in alcuni ambienti, non solamente dei mali che affliggono la Chiesa, ma anche delle cause di questi mali e delle responsabilità dell’ultimo Concilio. Non possiamo che desiderare che un giorno le autorità riconoscano tutto ciò e vengano applicati i rimedi - quale rimedio migliore se non la Tradizione? - per il bene della Santa Chiesa».

Sabato 5 gennaio è stato preso in esame il punto di vista dottrinale e sono intervenuti padre Patrice Laroche, professore del Seminario tedesco di Zaitzkofen («Un tentativo di dogmatizzare il Concilio Vaticano II»); il professor Giovanni Turco dell’Università di Udine («La modernità e il Vaticano II); padre Yves le Roux, direttore del Seminario di Winona negli Stati Uniti («Un Concilio non come gli altri»); padre Franz Schmidberger, Superiore del distretto di Germania («L’ermeneutica della continuità o della rottura?»); padre Jean-Michel Gleize, professore del Seminario di Écône («Due concezioni di Magistero») e padre Alain Lorans, redattore di D.I.C.I. («Lo sguardo della fede e la lezione dei fatti»).

Padre Laroche ha spiegato che il tentativo di dogmatizzare il Concilio Vaticano II è viziato fin dalla partenza. «Alla domanda sui rapporti tra Roma e la FSSPX, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Monsignor Gerhard Ludwig Müller ha affermato, nell’autunno 2012 in un’intervista alla radio tedesca Norddeutscher Rundfunk: “La porta è sempre aperta... ma non vi è alcun compromesso in termini di fede cattolica, soprattutto perché è stata definita regolarmente dal Vaticano II ... Non possiamo negoziare la fede cattolica, non ci può essere nessun compromesso». Con queste parole pare che con il Vaticano II si sia dato un insegnamento definitivo e, quindi, immutabile e infallibile o quasi. Ebbene, ha proseguito il professore, oggi «come lo era 30 o 35 anni, Roma è estremamente imbarazzata» quando si afferma che esistono alcuni testi del Concilio sbagliati o che alcune decisioni del Vaticano II sono dannose per la fede. Esistono dei significativi esempi al riguardo: il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il Cardinale Seper, scrisse a Monsignir Lefebvre il 28 gennaio 1978, a proposito della libertà religiosa: «Questa Dichiarazione conciliare è chiaramente un insegnamento del Magistero, anche se non è l’oggetto di una definizione, richiede obbedienza e consenso (cf. Cost.. Dogm. Lumen Gentium, 25). Perciò non è lecito respingerlo come errato».
A proposito del Novus Ordo, ancora il Cardinale Seper ha detto: «Un fedele non può mettere in dubbio la conformità con la dottrina della fede di un rito promulgato dal Supremo Pastore, soprattutto se è il rito della Messa, che è al centro della vita della Chiesa». Sullo stesso argomento il Cardinale ha chiesto a Monsignor Lefebvre, durante un interrogatorio alla Congregazione per la Dottrina della Fede, il 12 gennaio 1979:
«Può un fedele cattolico pensare e dire che un rito sacramentale, specialmente nella Messa, approvato e promulgato dal Sommo Pontefice, sia incompatibile con la fede cattolica o favens haeresim?». Monsignor Lefebvre diede questa risposta: «Questo rito non professa la fede cattolica chiaramente come l’ordine della Messa di prima e, quindi, può promuovere l’eresia». Inoltre, disse ancora il fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X: «la cosa stupefacente è il sapore protestante dell’Ordine di questa Messa e quindi favens haeresim». Monsignor Lefebvre dichiarò, quando fu rimproverato di un comportamento “scismatico”: «Penso che sia possibile, come hanno fatto molti altri nella storia, manifestare riluttanza, su alcune decisioni, nei confronti del Papa e della Curia Romana. [...] Fino a quando non si impegna l’infallibilità papale, la presentazione pubblica di certe difficoltà, da parte di un vescovo, non è un crimine di ribellione, se la presentazione stessa è basata sulla tradizione».
È importante, per chiarire ogni cosa, considerare l’autorità dottrinale del Concilio Vaticano II. La risposta la troviamo in un comunicato ufficiale della Commissione dottrinale del 6 marzo 1964, ribadita il 16 novembre 1964, in cui si afferma esplicitamente:
«Compte tenu de l’usage des conciles et du but pastoral du concile actuel, celui-ci ne définit comme devant être tenus par l’Eglise que les seuls points concernant la foi et les mœurs qu’il aura clairement déclarés comme tels. Quant aux autres points proposés par le Concile, en tant qu’ils sont l’enseignement du magistère suprême de l’Eglise, tous et chacun des fidèles doivent les recevoir et les entendre selon l’esprit du Concile lui-même qui ressort soit de la matière traitée, soit de la manière dont il s’exprime, selon les normes de l’interprétation théologique».
Alla base di tutte le dottrine moderne, vi è un nuovo concetto del rapporto della Chiesa con il mondo e tale disegno di base non ha radici nella Scrittura e nella Tradizione plurimillenaria della Chiesa cattolica romana. Questo è ciò che può rendere le decisioni non infallibili, sospendendo, pertanto, l’obsequium religiosum, necessario in circostanze normali. San Paolo (Gal 2, 11-14) non ha resistito a san Pietro, perché Pietro aveva sbagliato ad associarsi a coloro che «non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo»?
Con valide ragioni Monsignor Lefebvre ha scritto che la nuova professione di fede è accettabile, ma, nella fattispecie, con la condizione di non cadere in dottrine che si contraddicono fra di loro. Si può, allora, notare che il Vaticano II e il Magistero post-conciliare sono diventati «più esigenti di quanto fosse la Chiesa prima del Concilio. In precedenza il religiosum obsequium è stato richiesto quando si trattava di errori di condanna o punti controversi che il Papa ha voluto risolvere. Oggi un cattolico dovrebbe accettare ciò che insegna Roma, anche se si tratta di nuove dottrine, una volta condannate, anche se le applicazioni portano alla perdita della fede e sono rovinose per la vita cristiana. Il obsequium religiosum è diventato un modo di pensare e di agire».

Il professor Giovanni Turco ha poi affrontato la questione del metodo, precisando che l’autentica intelligenza filosofica è la via, «il pronao», per l’intelligenza teologica. «Il Concilio Vaticano II si presenta programmaticamente ed intenzionalmente come “pastorale” (pur senza definirne esplicitamente la nozione). La pastoralità ne individua perciò la natura ed il criterio - donde la peculiarità, l’indole ed il registro - e perciò il limite intrinseco (dichiarato esplicitamente dagli stessi testi conciliari). Anzi, la pastoralità -che propriamente è inconfondibile con il campo dottrinale e con quello disciplinare, pur essendo ovviamente ad essi strettamente connessa - ne fissa la singolarità (assoluta). In tal senso il Vaticano II, con i suoi documenti, eleva un metodo ed un linguaggio - quello appunto pastorale - a criterio di elaborazione e di espressione di ogni suo testo e di ogni suo atto. Sicché il metodo ed il linguaggio precedono il contenuto (tanto sotto il profilo dottrinale quanto sotto quello disciplinare). Il metodo sarebbe dato, il contenuto da darsi. Il linguaggio sarebbe fissato, il messaggio sarebbe da formulare. Il metodo ed il linguaggio assurgono così al rango di filtro attraverso il quale occorre comunicare qualsivoglia nozione.
Da tale premessa si profila, a ben vedere, un primo problema essenziale ed imprescindibile. Esso riguarda il significato stesso del metodo e del linguaggio, in rapporto ad un contenuto (quale che sia). Nei suoi termini essenziali ne emerge un quesito ineludibile. È possibile fissare un metodo ed un linguaggio aprioristicamente rispetto al proprio oggetto? Può darsi un metodo ed un linguaggio che costituiscano un prius (per se stesso) rispetto al proprio contenuto? In altri termini, può il metodo ed il linguaggio subordinare a sé il proprio oggetto (sia pure, per quanto attiene al proprio campo)? Ovvero, può il metodo ed il linguaggio essere considerato autonomamente rispetto al proprio contenuto?
Come si rileva, tale questione è filosoficamente ineludibile. La risposta affermativa o negativa rinvia al rapporto tra metodo e fondamento ed altresì tra linguaggio ed oggetto. È il metodo per sé fondante? Il metodo dipende dal fondamento o il fondamento dipende dal metodo? Il linguaggio dipende dal suo oggetto oppure l’oggetto dipende dal linguaggio? Altrimenti, il linguaggio ha un rapporto estrinseco oppure intrinseco al suo oggetto? A ben considerare, tertium non datur.
Anzitutto è da osservare che né il metodo né il linguaggio sono metafisicamente ed assiologicamente indifferenti. Nessun metodo, come nessun linguaggio, è neutrale rispetto ai principi logici ed etici. Nessun metodo, come nessun linguaggio si risolve in una mera tecnica. Al contempo neppure la tecnica è per sé indipendente dal suo oggetto e dal fine per il quale è impiegata. Il problema del metodo non è un problema di metodo. Il problema del linguaggio non è un problema di linguaggio. Il metodo non spiega il metodo. Il linguaggio non spiega il linguaggio. Analogamente può essere rilevato che la pastoralità non spiega la pastoralità (né come metodo né come linguaggio). Come per se stesso il finito non spiega il finito, ma esige necessariamente il fondamento.
Tanto il metodo quanto il linguaggio - anche ovviamente quando l’uno e l’altro si connotano come pastorali - rinviano al “ciò per cui” essi sono tali, ovvero rimandano a ciò che, trascendendoli, ne costituisce l’intima ragion d’essere, ed assicura ad essi validità specifica. Tanto il metodo quanto il linguaggio sono tali in quanto veri (e veramente tali), non sono veri in quanto tali. Essi rinviano, cioè, ad un criterio di validità, in ragione del quale un certo metodo (come un certo linguaggio) è valido ed un altro no. Ed il criterio di validità null’altro è se non il criterio di verità, ovvero il criterio di conformità intrinseca, secondo cui un metodo (ed un linguaggio) in rapporto al proprio oggetto, è autentico oppure no.
D’altra parte, è chiaro che il problema del metodo come quello del linguaggio (analogamente a quello della conoscenza), proprio per la loro relazione essenziale a ciò rispetto a cui costituiscono rispettivamente via inveniendi e via loquendi, non si pone in termini generici, ma necessariamente in termini specifici. Esso richiede la determinazione di ciò rispetto a cui il metodo (come il linguaggio) è propriamente tale. Altro è il metodo (ed il linguaggio) della metafisica, altro quello delle scienze empiriche, altro quello della teologia altro quello delle arti. Altrimenti, come evidenzia Platone (nel Gorgia) un metodo (o una pratica), che pretende di essere avulso dall’oggetto, e perciò di valere per qualsiasi contenuto (come quello sofistico), può persuadere solo gli ignoranti (non i competenti).
Ora, va osservato che la modernità esordisce con Cartesio e con Bacone – ed ancora prosegue emblematicamente con Spinoza e con Locke, con Kant e con Comte – affermando il primato del metodo e facendo della filosofia prioritariamente una questione di metodo, fino a far coincidere – lungo direttrici distinte eppure omologhe – metodo, linguaggio e contenuto con Hegel, da una parte, e con la filosofia analitica, dall’altra. Dove il metodo ed il correlativo linguaggio non hanno una mera priorità metodica (cosa che porterebbe chiaramente ad un circolo vizioso, ovvero ad una petitio principii) ma hanno una priorità costitutiva del sapere stesso».
Il primato del metodo e del linguaggio caratterizzano il razionalismo moderno. «Il primato del metodo coincide con l’autereferenzialità del razionalismo moderno, che (come ha acutamente diagnosticato Cornelio Fabro) presume di porre l’essere alle dipendenze del conoscere. La precedenza del metodo è la precedenza del conoscere sull’essere, ed ancor prima presuppone la priorità del volere rispetto al conoscere stesso. La metafisica, così, finisce per dipendere dalla gnoseologia».
Diversamente, nel pensiero classico è il contenuto a fondare il metodo ed il linguaggio, come è l’essere a fondare il conoscere: la verità di una proposizione e di un ragionamento dipende dal suo contenuto, non dal suo metodo, neppure dal suo linguaggio, come chiarisce Aristotele nella Metafisica (libro VI).
«San Tommaso d’Aquino insegna che il discorso persuasivo (per sé distinto da quello dimostrativo), non svuota la ragion d’essere della fede ed è fondato su ciò che ne costituisce il contenuto. Una scienza non rende evidenti i propri principi, ma in virtù dell’evidenza dei principi, rende evidenti le conclusioni. La scienza dipende dai principi, non i principi dalla scienza. Senza principi non vi può essere scienza, né qualsivoglia autentico sapere.
In definitiva, è il contenuto a fondare il metodo, non viceversa. Il metodo sta sul fondamento dei principi, non i principi sul fondamento del metodo. Il metodo, come il linguaggio, non è mai neutrale nei confronti dei principi. È l’oggetto a giudicare del metodo – e del linguaggio – non il metodo a giudicare dell’oggetto. Il metodo come il linguaggio o sono ricondotti all’essere, oppure pretendono di sostituirsi ad esso».
Tali considerazioni vanno esposte anche per il criterio della pastoralità che caratterizza il Concilio Vaticano II. «Il primato della pastoralità equivarrebbe al primato del metodo e del linguaggio. Ma tale primato non può darsi sotto il profilo epistemologico, né propriamente sotto il profilo ontologico. Il metodo come il linguaggio non hanno alcun primato: dipendono essenzialmente dall’ordine del vero, cioè dall’ordine dell’essere. Anche là dove la conformità in cui consiste la verità si riferisce al contenuto della Rivelazione.
L’impostazione dei documenti del Concilio Vaticano II pone, quindi, un fondamentale problema epistemologico. Anzitutto nella prospettiva epistemica soggiacente all’elaborazione dei testi, la quale proprio in quanto pastorale non è né dottrinale né disciplinare. Nel primo caso essa ha la verità (delle proposizioni e del ragionamento) come fondamento; nel secondo caso la giustizia (e l’equità). Diversamente, la pastoralità (per se stessa da misurarsi sulla dottrina e sulla disciplina) ne costituisce al contempo il criterio e la questione. Essa è già una interpretazione, a parte ante. Proprio per questo, a sua volta, richiede una interpretazione, a parte post. Per sé non spiega, ma deve essere spiegata. Come tale, non può che essere una misura da misurarsi. Appena enunciato – il criterio della pastoralità – vede emergere ineludibilmente i problemi essenziali relativi alla sua stessa ragion d’essere. Problemi che non possono essere occultati, affinché vi sia autentica intelligenza dei testi».
(continua)
 
tratto da: http://www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2140:xi-congresso-teologico-del-courrier-de-rome-vaticano-ii-50-anni-dopo-quale-bilancio-per-la-chiesa-versailles-parigi-4-5-6-gennaio-2013-resoconto-di-cristina-siccardi-seconda-parte&catid=61:vita-della-chiesa&Itemid=123

martedì 22 gennaio 2013

candidati

Candidatus 

Ci siamo, tra un mese si vota per il rinnovo del Parlamento. A giorni saremo invasi dai “santini”, le nostre cassette per le lettere traboccheranno di promesse, di volti sorridenti, rassicuranti, sbarbati e puliti. Tornano i candidati. Dilagano (a dire bugie) in TV.

Nell’antica Roma gli aspiranti al Senato e a qualsiasi altra carica dovevano indossare una tunica bianca  (candida) per essere riconosciuti, interpellati e pesati.

Noi li abbiami già pesati e li abbiamo già trovati mancanti.

La res publica non poteva e non può essere affidata a gente che si è dimostrata inaffidabile. 


 Recordamini, cives, 

quanta virtute maiores nostri 

libertatem patriae tuiti sint.




lunedì 21 gennaio 2013

XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013. Resoconto di Cristina Siccardi – (prima parte)


 
XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013.
resoconto di Cristina Siccardi
(prima parte)

Il dibattito sul Concilio Vaticano II è entrato nel vivo e mentre gli argomenti declamatori hanno perso consistenza di fronte all’anacronismo degli ottimistici entusiasmi di un’utopica primavera della Chiesa degli anni Sessanta (quando si volle gettare la Chiesa in un imprudente dialogo con il mondo), chi osa, con coraggio, profonda Fede e amore per la Chiesa, mettere sotto esame il più problematico Concilio della storia offre l’opportunità ai credenti di comprendere le mosse di una rivoluzione che ha reso sismica la zolla su cui poggia la cattolicità. In questi giorni, dal 4 al 6 gennaio 2013, si è tenuto, fra Versailles e Parigi, l’XI Congresso Teologico Internazionale, organizzato dalla dotta e valorosa testata Courrier de Rome, in collaborazione con D.I.C.I., sotto la Presidenza di S.E. Monsignor Bernard Fellay, Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Tema della tre giorni è stato: Vatican II, 50 ans après: quel bilan pour l’Église? Ossia: «Vaticano II, 50 anni dopo: quale bilancio per la Chiesa?».
I relatori che si sono susseguiti al tavolo dei lavori hanno offerto una disamina ampia e approfondita sulle diverse problematiche sorte nel XXI Concilio. Le tesi proposte hanno realisticamente affrontato, sia da un punto di vista storico, che filosofico, che dottrinale, il problema dello scollamento fra la Chiesa della Tradizione e coloro che si sono lasciati trascinare dalle seduzioni filosofico-culturali del mondo moderno.

Il primo giorno del Congresso, quando è stato proposto il punto di vista storico, l’Abbé François Knittel, priore di Strasburgo, ha compiuto una panoramica in merito ai rapporti fra la FSSPX e la Santa Sede, Accettare il Vaticano II e la Nuova Messa: da Paolo VI a Benedetto XVI. I problemi di carattere disciplinare della Fraternità Sacerdotale San Pio X sorti sotto i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II vengono ad assumere, secondo la spiegazione di Knittel, una prospettiva nuova sotto Benedetto XVI, il quale chiede alla FSSPX una regolarizzazione mentre si compiono alcuni importanti passi: liberalizzazione della Messa di sempre del 2007 e revoca delle scomuniche dei quattro Vescovi consacrati da Monsignor Marcel Lefebvre nel 1988.
Il problema, dunque, si è spostato dal punto di vista disciplinare a quello dottrinale; infatti vengono aperti i colloqui dottrinali tra la Santa Sede e la FSSPX nell’ottobre 2009, che si chiuderanno nell’aprile 2011.
«Sembra chiaro che, le proposte romane si sono gradualmente spostate dalla materia canonica e disciplinare», esistenza della Fraternità, dei seminari, dei priorati..., «a quella dottrinale. Ma l’accettazione del Concilio e la Messa di Paolo VI, come richiesto dalle attuali autorità della Chiesa, sono prerequisiti non negoziabili». Dunque per avere un riconoscimento canonico ed un ritorno “alla piena comunione” le autorità romane chiedono, per il momento, l’accettazione sine qua non del Vaticano II e della Nuova Messa.
Padre Knittel ha spiegato che non si tratta di una lotta statica, ma dinamica e in divenire e, pertanto, diviene basilare gettare uno sguardo sia al passato più lontano che a quello più vicino, restando «fedeli a ciò che Dio si aspetta da ciascuno di noi hic et nunc. Tuttavia, col trascorrere del tempo, siamo esposti a molti pericoli: pericolo per i giovani di ignorare il passato, quando essi non erano né attori né testimoni; pericolo per i più adulti di dimenticare il passato e di limitare la valutazione o, al contrario, di congelare il passato che si dissocia dai più recenti sviluppi».
A volte c’è bisogno di fermarsi, di esaminare tutto il “dossier”, di abbracciare in un colpo d’occhio il passato e il presente per cogliere le sfumature, il progresso, le battute d’arresto, le accelerazioni, le decelerazioni, la logica. Questo è ciò che ci proponiamo di fare oggi circa l’accettazione del Concilio Vaticano II e la riforma liturgica. Per fare un simile esame ci si può avvalere di varie fonti, fra le quali: i discorsi di Paolo VI e di Benedetto XVI sulla riforma liturgica e l’accettazione del Concilio; le proposizioni presentate alla Fraternità San Pio X dal 1975 fino a giugno 2012; le iniziative relative alla celebrazione romana della Messa tradizionale dal 1980 al 2011.
Per la Fraternità, ha detto Knittel, come per la Chiesa fino al Concilio Vaticano II, la Tradizione è il Depositum Fidei, vale a dire l’insieme di verità che costituiscono la Rivelazione, chiusasi con la morte di san Giovanni Evangelista. Pertanto la Tradizione è un insieme di verità intellettualmente accettabili ed eterne, la cui mutabilità consiste nell’immutabilità dell’oggetto, benché possano essere approfondite. In questa concezione la Tradizione è la continua ripetizione dell’esperienza di fede fatta dalla Chiesa apostolica. Ma la prospettiva ha avuto un mutamento: la continuità non risiede più nell’oggetto eterno ed immutabile, ma nel soggetto che prova e produce l’esperienza religiosa. Così il solo ricercare, tramite l’esegesi dei testi conciliari, la continuità o meno con la Tradizione viene ritenuto da alcuni un metodo che mette in discussione l’assistenza dello Spirito Santo. Tuttavia, rimane questa la via lecita da praticare per comprendere le sfasature, le ambiguità e fare spazio alla chiarezza.
«Il Vaticano II e la Messa nuova sono stati la nuova anima della Chiesa conciliare e l’accettazione dell’uno e dell’altro erano la conditio sine qua non per una regolarizzazione canonica. Sono passati dieci anni e le cose non sono cambiate. Il ragionamento delle autorità romane è sempre lo stesso: da quando c’è stato il nuovo Concilio e la promulgazione della nuova Messa ogni cattolico deve accettare l’uno e l’altra.
Senza mettere in discussione l’autorità, la Fraternità afferma che la correttezza di una legge dipende anche dalla ragione finale del bene comune. Ma oggi non c’è dubbio sulla crisi universale che affligge la Chiesa dopo il Concilio. Dottrina, catechismo morale, liturgia, educazione cattolica, università, disciplina ecclesiastica: tutto è sconvolto». Non è forse perché gli insegnamenti delle riforme conciliari e post-conciliari hanno errato qualcosa? Dunque, si è chiesto l’Abbé Knittel, come «lavorare alla salvezza delle anime in questo contesto?». In primo luogo, rifiutando di aderire alle questioni controverse del Concilio e rifiutando di riconoscere la legittimità della nuova Messa. Questo rifiuto rispettoso cerca e spera correzioni nella dottrina, nella disciplina canonica e tradizionale. «A coloro che sono stati sedotti dal miraggio delle novità e che dubitavano dei principi tradizionali, è importante mostrare, non da un ragionamento, ma dai fatti, la fertilità inesauribile di questi principi tradizionali. Non bisogna infatti dimenticare che questo era e rimane la missione della Fraternità Sacerdotale San Pio X nella Chiesa».

Con l’intervento del Professor Roberto de Mattei si è preso atto che la storia è una scienza che dovrebbe essere tenuta in maggiore considerazione nelle discipline ecclesiastiche. Certamente il pensiero cattolico del Novecento annovera grandi teologi, grandi filosofi, grandi moralisti, grandi maestri di vita spirituale, ma nessun grande storico ha saputo unire la vastità della scienza e dell’erudizione alla pienezza della fede ortodossa.
«Eppure la storia - mi riferisco soprattutto alla storia della Chiesa - può portare immensi benefici alla restaurazione culturale e morale di un popolo. Basti pensare alla benefica influenza, nel XIX secolo, della monumentale Histoire universelle de l’Eglise catholique di René Francois Rohrbacher in 28 volumi, con sette edizioni dal 1842 al 1901, e traduzioni in italiano, inglese e tedesco. Quest’opera ha avuto una influenza sul pensiero cattolico dell’Ottocento non minore delle opere del conte Joseph de Maistre. Il presidente dell’Ecuador Garcia Moreno la lesse due volte durante il suo soggiorno a Parigi e anche grazie ad essa si fece definitivamente e irrevocabilmente cattolico.
Opere di questo genere oggi mancano e la ragione principale di quest’assenza dall’orizzonte culturale ecclesiastico sta, a mio avviso, nella perdita del senso storico, che è la comprensione delle vicende umane, nelle loro cause e nelle loro conseguenze, da un punto di vista innanzitutto soprannaturale. Dom Guéranger, il grande abate di Solesmes, che appartiene alla stessa scuola ultramontana di Rohrbacher, definisce lo storico cattolico come colui che “juge les faits, les hommes, les institutions au point de vie de l’Eglise; il n’est pas libre de juger autrement, et c’est là qui fait sa force”».
Con il Modernismo si fece strada una nuova concezione della storia, la quale ha capovolto la prospettiva di dom Guéranger, affermando che sono le scienze umane, la storia e le sue discipline ausiliari, come la filologia, l’archeologia, la sociologia, ad illuminare la fede e ad offrire una migliore comprensione di essa. Mons. Louis Duchesne, maestro di Alfred Loisy all’Institut Catholique, è stato l’iniziatore di un nuovo metodo che si è progressivamente esteso all’esegesi e a tutte le discipline ecclesiastiche. «È il cosiddetto metodo storico-critico, a cui oggi tutti si rifanno, contrapponendolo al metodo apologetico tradizionale». Il professor de Mattei ha proseguito spiegando che il metodo storico-critico, ovvero la ricerca accurata delle fonti, il rigore filologico e la obiettività nell’accertamento dei fatti, venne già utilizzato da Eusebio di Cesarea e ha avuto eccellenti rappresentanti fino al barone Ludwig von Pastor, al Cardinale Hergenrother, all’eccellenza degli Annali Ecclesiastici del Cardinale Baronio. «Oggi però, con questo termine, si intende affermare una concezione secolarizzata della storia: proprio quella che dom Guéranger criticava nella sua polemica con Albert de Broglie e che san Pio X ha condannato nella Pascendi».
Lo storico cristiano deve manifestare la propria fede, deve leggere i fatti alla luce di essa e dell’intervento della Divina Provvidenza nelle falde della storia umana oppure deve scimmiottare gli scienziati acattolici? Per essere veramente cristiano deve respingere l’approccio naturalista che allontana la presenza del soprannaturale dalla storia e riduce la realtà ad una pura dimensione fenomenica e sensibile. «Lo storico cattolico non è colui che va a Messa la domenica e poi nella sua professione si adegua alle regole imposte dalla corporazione universitaria. È invece colui che nella sua opera cerca la verità dei fatti, e di questi fatti dà un’interpretazione unitaria, alla luce della fede cattolica».
La perdita del senso soprannaturale fa smarrire la teologia della storia cristiana, conducendo a derive protestantizzanti con conseguenze disastrose, come è accaduto, per esempio, a Jacques Maritain, il quale fonda il suo «“umanesimo integrale” su di un postulato storico radicalmente erroneo: quello della irreversibilità del mondo moderno, nato dalla Rivoluzione francese. Lo storico cattolico sa che nulla è irreversibile nella storia e soprattutto che la storia non crea i valori, ma è sottomessa e giudicata da essi. Il pensiero cattolico del Novecento ha fatto propria invece la concezione hegeliana della storia come Weltgeist”, “il cammino razionale, necessario dello spirito del mondo”. La storia si trasforma in un percorso irreversibile, in cui il dato cronologico del novum coincide con quello qualitativo del melius». L’idea immanentista provoca uno sconcertante ribaltamento di superbia umana: la Chiesa non ha più un ruolo guida, ma deve accompagnare e, dunque, adeguarsi, al cammino della storia. «È questa la concezione della storia espressa dal cardinale Martini quando, nella sua ultima intervista, ha affermato che la Chiesa “è indietro di 200 anni”, ovvero l’arco di tempo che la separa dall’evento fondatore della Rivoluzione francese». Ecco che l’essenza del Concilio Vaticano II sta nel tentativo di conciliare la Chiesa con il mondo moderno nato proprio dalla Rivoluzione francese; tentativo fallimentare «perché fondato su di un postulato erroneo, smentito dalla stessa storia: la tesi della irreversibilità della modernità».
De Mattei, come d’altra parte nel suo libro Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, formula un giudizio storico sull’Assise nel suo insieme, a differenza del giudizio teologico di Monsignor Brunero Gherardini che, in qualità proprio di teologo, separa i documenti del Concilio dall’evento, considerandoli nella loro formulazione, «sicut litterae sonant ed ognuno ha una diversa portata teologica e un diverso grado di autorità e di cogenza. Se la grandezza del teologo sta nella sua capacità di distinguere, il valore dello storico sta nella sua capacità di ridurre ad unum, cioè di cogliere l’essenza, il momento unitario, della molteplicità degli eventi nel loro fluire. La confusione dei due livelli, quello storico e quello ermeneutico, sarebbe un grave errore di ordine epistemologico.
Concordo con la scuola di Bologna, quando afferma che il Concilio Vaticano II non può essere ridotto alle sue decisioni dottrinali, ma la mia distinzione tra la dimensione fattuale e quella dottrinale del Concilio, non ha nulla a che vedere con quella proposta da Giuseppe Alberigo nella sua Storia del Concilio Vaticano II: Mentre io distinguo tra storia e teologia, e affermo il primato della teologia sulla storia, Alberigo, sulla scia della scuola di Le Saulchoir, assorbe la teologia nella storia e fa della storia stessa un locus theologicus. Per lo storico bolognese, come per il suo maestro Chenu, l’essenza della Chiesa si attua in forma storica e il compito di individuare la mutevolezza delle forme spetta agli storici. L’atto magisteriale è destinato ad essere storicizzato e relativizzato, all’interno di un processo dialettico in cui l’ “evento” prevale sulla dottrina, lo “spirito” sul documento. Lo “Spirito” non è la terza persona della Santissima Trinità, ma una sua versione secolarizzata: è lo spirito del mondo, immanente alla storia. Il principio di immanenza sostituisce quello di trascendenza, perché la trascendenza impedisce all’uomo di vivere la propria fede all’interno del mondo».
Il Concilio Vaticano II è stato presentato come una «nuova Pentecoste» che ha sostituito la metafisica alle leggi della pastoralità e dell’aggiornamento, divenute così fondanti da accantonare la dimensione dottrinale e provocando delle aspettative psicologiche entusiastiche già nella costituzione apostolica Humanae salutis (25 dicembre 1961), con la quale Giovanni XXIII convocò il Concilio al fine di interpretare «i segni dei tempi» (Mt. 16,3) e come rivelò nel discorso Gaudet Mater Ecclesia dell’11 ottobre 1962, il Papa si oppose a quei «profeti di sventura» che «annunziano sempre il peggio quasi incombesse la fine del mondo» e fra le «“profezie di sventura” Papa Roncalli considerava il Terzo segreto di Fatima, di cui, dopo averlo letto, vietò la diffusione giudicandolo certamente inadatto a comprendere i segni dei tempi», tempi moderni nei quali venne bandita la parola «inferno», un concetto che, nello spirito di «balzo in avanti», appariva a teologi come Küng, Rahner, von Balthasar, Schillebeeckx una rappresentazione nefasta, mitologica «o, pur ammettendone la realtà, lo considerarono “vuoto”. La negazione o il ridimensionamento dell’inferno era peraltro la conseguenza di una concezione implicita nella Gaudet Mater Ecclesiae, secondo cui: “Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di abbracciare le armi del rigore”». La medicina si è dimostrata mortifera sia per la fede che per la morale.
La pianificazione di carattere strettamente umano e non soprannaturale che è stata compiuta durante il Concilio Vaticano II ha prodotto cattivi frutti anche a causa di ciò che è stato volutamente omesso: Jean Madiran fu il primo a portare alla luce, sulla rivista «Itinéraires» del febbraio 1963, l’esistenza di un accordo segreto, avvenuto a Metz, nell’agosto 1962, tra il Cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano e il nuovo Arcivescovo ortodosso di Yaroslav, Monsignor Nikodim, i quali decisero che durante il Vaticano II non si sarebbe parlato del tema principe di quegli anni: il Comunismo. E l’Ostpolitik venne a patti proprio con le autorità sovietiche. De Mattei ha ricordato, a questo proposito, la bella figura del Cardinale Alois Stepinac che, anche nelle ore più buie della sua prigionia e del suo isolamento, non dubitò mai del crollo del Comunismo. Scrisse: «Io probabilmente non vedrò la caduta del comunismo nel mondo, a motivo della mia salute scossa, ma sono assolutamente certo di questa caduta. Tutto ciò che viene costruito contro la natura che Dio ha creato e istituito, deve crollare per intrinseca necessità. Anche qui si potrebbe dire ciò che Gesù dice nel Vangelo: “Ogni piantagione che non ha piantato il Padre mio celeste, sarà sradicata”. Poiché il comunismo nega Dio e lo espone al ridicolo, è ben certo che non lo ha piantato Dio, ma satana. E satana ha perduto la battaglia sul Calvario, e perciò sono sicuro che la perderà anche sul Calvario del Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, la quale oggi sale sul suo Golgota». Ha domandato lo storico italiano a Versailles: «Ma oggi dobbiamo chiederci: erano profeti coloro che ritenevano, come gli artefici dell’Ostpolitik, che occorreva trovare un compromesso con la Russia sovietica, perché il comunismo interpretava le ansie di giustizia dell’umanità e avrebbe portato a compimento il progetto della modernità; o era profeta il Beato Stepinac e tutti coloro che in Concilio denunciavano l’oppressione brutale del comunismo reclamando una sua solenne condanna? La caduta del Muro di Berlino è la risposta a questa domanda.
Condivido il giudizio di Plinio Corrêa de Oliveira sulla mancata condanna del comunismo: “È’ duro dirlo. Ma l’evidenza dei fatti indica, in questo senso, il Concilio Vaticano II come una delle maggiori calamità, se non la maggiore della storia della Chiesa”».
Propizio il paragone che ha poi fatto fra il paganesimo del IV secolo e quello di oggi: «A Ponte Milvio Costantino aveva sconfitto, in nome della Croce, il paganesimo morente. A Roma, il Concilio Vaticano II abbraccia il neo-paganesimo del XX secolo, senza rendersi conto che è anch’esso morente. Sotto questo aspetto il Concilio Vaticano II può essere definito come il ralliement della Chiesa a quel mondo moderno che il suo Magistero aveva sempre condannato».
Il 12 ottobre 1963, Monsignor Franić, vescovo croato di Spalato, suggerì ai Padri conciliari che, nello schema De Ecclesia, al nuovo titolo di Chiesa «pellegrinante» fosse aggiunta la denominazione tradizionale di «militante», ma la sua proposta fu rifiutata. «L’immagine che la Chiesa avrebbe dovuto offrire di sé al mondo non era quella della lotta, della condanna o della controversia, ma del dialogo, della pace, della collaborazione ecumenica e fraterna con tutti gli uomini. La minoranza progressista ottenne non tanto un cambiamento della dottrina della Chiesa, quanto una sostituzione dell’immagine gerarchica e militante della Sposa di Cristo con l’immagine di un’assemblea democratica, dialogante e immersa nella Storia».
La Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II, ha rinunciato alla sua dimensione militante, così alla «teologia agostiniana e ignaziana delle due città, che si combattono nella storia, quella di Dio e quella di Satana, è succeduta una teologia vittimista e catacombale, per la quale si deve cessare di difendere le verità in cui si crede: ma cessando di combattere per queste verità, si cessa di credere in esse, si cessa di amarle, perché chi ama combatte per difendere ciò in cui crede. In realtà la Chiesa che soffre in purgatorio e trionfa in Paradiso, combatte in nome di Cristo sulla terra e perciò è chiamata “militante”. Il ritrovamento di questo spirito mi sembra essere una delle urgenze della Chiesa del nostro tempo». Tuttavia il combattente cattolico continua ad esistere perché la Chiesa militante non può essere soffocata: è la verità che avanza coraggiosamente di fronte alle menzogne che arretrano miseramente, nonostante l’apparente successo di numeri. «La gioia nella lotta caratterizza il combattente cattolico del XXI secolo, un combattente che guarda al futuro senza dimenticare il passato; che nei momenti di difficoltà ricorre al Magistero vivente della Tradizione; quella Tradizione che oggi illumina i nostri passi, come illuminò i passi di Atanasio l’invitto campione della fede durante la terribile crisi ariana del IV secolo. Atanasio era mosso soprattutto dal suo sensus fidei che, come ci ricorda il beato Newman, durante i settant’anni della crisi ariana fu mantenuto dai semplici fedeli più che dai vescovi i quali, tranne poche eccezioni, quali Atanasio, Ilario di Poitiers, Eusebio di Vercelli, non testimoniarono la fede ortodossa».
Roberto de Mattei ha chiuso la sua conferenza auspicando l’intervento di protettori della Tradizione come sant’Atanasio e come santa Teresa d’Avila, la quale affermava che avrebbe affrontato mille morti per la più piccola cerimonia della Chiesa. Il suo insegnamento possa, quindi, essere di sprone per coloro che non si arrendono e sanno che tutto ciò che non è di Dio è destinato a perire, proprio come la santa dichiarava: «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Chi ha Dio di nulla manca. Tutto passa, solo Dio non muta». La Tradizione è ciò che non passa, è ciò che del passato vive nel presente, ciò che deve vivere perché il presente abbia un futuro e «noi siamo convinti che nel nostro futuro sia scritta, grazie all’intervento di Dio, la restaurazione della Chiesa e della Civiltà cristiana. La nostra presenza, la nostra voce, la nostra testimonianza ne è la prova».

(continua)