sabato 22 dicembre 2012

il grande digiunatore

"Una bestia feroce che non ha più scampo è sempre pericolosa. E Saruman possiede poteri che immagini memmeno. Attento alla sua voce!" Gandalf a Pipino (J. R. R. Tolkien. Il Signore degli Anelli, I edizione Bompiani, p. 633)

IL GRANDE DIGIUNATORE

Estratto del volume autobiografico del Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, dal titolo: "Memorie e digressioni di un italiano cardinale" (Edizioni Cantagalli, Siena, 2007, pp. 640, Euro 23,90).

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XIX digressione
PICCOLA CONTESTAZIONE AL GRANDE DIGIUNATORE

Chi è?

Nessuno mi chieda nome e cognome del Grande Digiunatore: non è un singolo personaggio, sono in parecchi e tutti, a diverso titolo e con diversa pertinenza, entrano a dare figura concreta e situazione storica a un tipo umano generale e astratto. Il primo e più onorato tra essi è senza dubbio il Mahatma Gandhi: mahatma in sanscrito significa “grande anima”; ma poi, nell’arte del digiuno annunciato e ostentato, sono seguite “anime” di tutte le misure. Il Grande Digiunatore non si accontenta di non mangiare per suo estro, nel segreto della sua casa o addirittura in località deserta (come Gesù Cristo): egli fa del suo digiuno un manifesto di propaganda. Non si astiene dal cibo per ragioni sue, ascetiche o sanitarie o di estetica personale: mette la sua rinuncia al servizio di qualche importante causa umanitaria.

Una spontanea antipatia

Sarà perché non ho avuto il dono di un’estrazione borghese (e sono stato abituato a rispettare e a temere la fame) o perché sono incline a non fidarmi facilmente degli eroismi gratuiti, ma il Grande Digiunatore non ha mai riscosso le mie simpatie. È qualcosa di istintivo, e non è detto che gli istinti diano sempre suggerimenti encomiabili. Perciò ho cercato dentro di me quali siano i motivi razionalmente enunziabili di questo stato d’animo di ripulsa: in chi è illuminato dalla fede è normale l’abitudine di verificare se ci sia – e quale sia – la ragione oggettiva dei suoi atti e dei suoi comportamenti. Noi credenti siamo abituati a ragionare.

Le ragioni della contestazione

La prima e meno elevata causa del mio malanimo è che il Grande Digiunatore, quando decide di privarsi del suo pranzo, un poco guasta anche il mio. Su questo argomento la mia sensibilità è acuta: il solo pensiero che una creatura umana, un figlio di Dio, un mio fratello (sia pure un po’ alla lontana) si astenga a lungo da cibi che pure sono di sua facile disponibilità (e perciò istante dopo istante interpellano naturalmente la sua crescente voracità) mi sconvolge. Una volta appresa la notizia della sciagurata iniziativa, anche l’onesto piatto di tagliatelle, che stava aspettandomi con l’abituale amicizia, perde la sua bonarietà bolognese, mi guarda male, sembra colpevolizzarmi. Ma che c’entro io, nella mia pochezza, con le grandi battaglie dei superuomini? Ma c’è qualcosa di più grave. Le iniziative tipiche del Grande Digiunatore sono in fondo di natura ricattatoria: si tenta con esse di estorcere, attraverso una forma specifica di violenza psicologica e morale, un consenso, una complicità, un adeguamento comportamentale; in certi casi addirittura un provvedimento legislativo e di governo. E questo non è accettabile. L’eventuale valore della tesi, che così si vuole imporre, non attenua affatto l’odiosità del procedimento. Né il convincimento soggettivo maturato in buona fede può costituire una scusante.

Nel mondo contemporaneo il ricatto è un uso abbastanza diffuso, con una fenomenologia molteplice e disparata. Sul ricatto vive l’industria dei rapimenti e delle devastazioni minacciate; di prospettive ricattatorie si serve talvolta l’adolescente che ha deciso di farsi regalare il motorino dai genitori riluttanti; ricatta anche l’uomo politico che preannuncia un’inutile o dannosa crisi parlamentare se non vede soddisfatta una sua pretesa. E così via.

Poco o tanto, sono sempre azioni abominevoli, perché insidiano la libertà di decisione dell’uomo, che si vede se non costretto almeno sospinto a pensare, a parlare, ad agire, contro il suo parere e la sua volontà; e soprattutto contro la ragione. La terza rimostranza è ancora più intrigante. Il Grande Digiunatore non si abbassa mai a spiegare ai “piccoli”, che rapporto ci sia tra la sua “laica” penitenza e la bontà della causa che egli intende promuovere. Egli si sacrifica nobilmente a favore di qualche mèta che gli sta a cuore, ma ritiene superfluo chiarire l’intrinseca relazione tra il suo digiuno e il traguardo che intende conseguire.

La sua è dunque una richiesta di assenso e di condivisione, sollecitata non con la forza di argomentazioni ineccepibili, ma con un metodo che esula da qualsivoglia razionalità. Anzi, la pressione per convincere, esercitata sugli animi, tende a debilitare le menti attraverso la nebbia delle emozioni e della pietà. Dal Grande Digiunatore io mi sento dunque attaccato e offeso nella mia logica sostanziale. E ciò che programmaticamente va contro il dono divino della ragione non può essere tollerato.

La cosa è tanto più abnorme in quanto spesso (non sempre) il Grande Digiunatore è un devoto della conoscenza puramente naturale (e non ammette per principio che si dia altra luce); e quindi del razionalismo più rigoroso. Ma forse qui è il caso di ricordare l’osservazione di Chesterton: «Coloro che usano la ragione non la venerano, la conoscono troppo bene; coloro che la venerano non la usano».

giovedì 20 dicembre 2012

bonzi e bose

 
chi loda, approva o consiglia azioni peccaminose, pecca mortalmente.........
 
«Uccidersi per protesta a volte è giusto». Così titolava domenica 16 dicembre La Stampa un lungo articolo a firma di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, dedicato al fenomeno delle autoimmolazioni di giovani tibetani per protesta contro l’oppressione del regime cinese. La sintesi operata nel titolo rende pienamente ragione del contenuto dell’articolo che, anzi, in diversi punti ha affermazioni ancora più gravi. Per Bianchi infatti, il monaco tibetano che si dà fuoco è un «martire» che «compie un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti: non mira unicamente alla propria rinascita, ma al rinnovamento del mondo». «Vale la pena – diceva ancora Bianchi – di lasciarci interrogare da questi monaci disposti a consumare la propria vita tra le fiamme come incenso», ricordando che i monaci suicidi «con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male».

Parole pesanti, scritte con la solita arte della doppiezza di cui Bianchi è maestro, ovvero lasciando intendere un messaggio eterodosso ma stando sempre attento a non fare affermazioni che confermino l’impressione. Così ad esempio fa un ritratto dei monaci suicidi che ricorda chiaramente il sacrificio di Gesù, ma negando che voglia «tracciare un parallelo con il servo sofferente di cui parla il libro di Isaia, con l’atteggiamento di Gesù di fronte ai suoi persecutori o con i martiri cristiani».

Ieri, sempre dalle colonne de La Stampa, intervistati da Andrea Tornielli, hanno replicato a Bianchi sia il cardinale Renato Raffaele Martino, già presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e Osservatore permanente alle Nazioni Unite, che Vittorio Messori. Martino ha spiegato che «per noi cristiani è inconcepibile il suicidio. Anche se questo darsi la morte può avere fini nobili. Il Catechismo della Chiesa cattolica insegna che il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare la propria vita ed è contrario all’amore del Dio vivente. Se è commesso per servire da esempio (cosa sostenuta da Bianchi per dare ancora più valore al gesto, ndr), si carica anche della gravità dello scandalo». Questo dovrebbe almeno chiarire ai cattolici così infatuati del buddhismo al punto da presentarlo – come lascia intendere Bianchi - come la realizzazione del cristianesimo, che si tratta in realtà di un pensiero e di una pratica antitetica a quella cattolica.

Peraltro, pur con tutta la solidarietà che si può dare al popolo tibetano per le sofferenze inflittegli dal regime comunista cinese, è giusto ricordare – come fa Messori – «che fino al 1950 (anno dell’annessione da parte della Cina, ndr) il Tibet era la più dura delle teocrazie sacrali. Il Dalai Lama aveva i suoi feudatari, che erano i lama: possedevano tutta la terra, avevano potere di vita e di morte. Ogni famiglia era obbligata a mandare almeno un figlio in monastero, con conseguenze a dir poco spiacevoli in caso di disobbedienza. Insomma, il Tibet prima del dominio cinese non era certo un modello per i diritti umani». Il che dovrebbe anche chiarire che l’indipendenza dalla Cina che giustamente il Tibet rivendica, non ha molto a che vedere con la libertà come la intendiamo in Occidente.

Ma l’uscita di Enzo Bianchi sui monaci tibetani non è un episodio isolato che si possa attribuire magari a una errata comprensione del mondo buddhista. In realtà la passione del priore di Bose per i suicidi – che lui definisce martiri – è decisamente antica: 7 maggio 1998, in Pakistan il vescovo cattolico di Faisalabad, John Joseph, si spara un colpo di pistola alla testa davanti al Tribunale della sua città. Motivo: la condanna a morte di un laico della sua diocesi in applicazione della famigerata Legge sulla blasfemia. Per l’episcopato pachistano e per la Santa Sede è una situazione imbarazzante, un fatto senza precedenti, all’inizio si pensa – e si spera – che sia un omicidio mascherato, poi la realtà non lascia scampo: si è proprio suicidato.

L’Osservatore Romano esprime questo imbarazzo dedicando solo un breve necrologio al vescovo, ma sulla prima pagina di Avvenire campeggia un commento di Enzo Bianchi che saluta il nuovo martire e definisce il tragico evento come «una modalità rarissima nel martirio cristiano».

Dunque, siamo di fronte a una vera e propria affermazione estranea alla dottrina cattolica, che viene spacciata da Bianchi per suprema testimonianza di fede. La questione è che Enzo Bianchi – come del resto già La Bussola Quotidiana ha documentato – continua a portare confusione tra i cattolici, peraltro con l’avallo di numerosi vescovi che lo invitano adoranti nelle loro diocesi a tenere conferenze ed esercizi spirituali. E con il silenzio di chi, in materia di dottrina, dovrebbe pur dire una parola chiara. Bianchi, in fondo, può anche dire quello che vuole, ma se poi tanti cattolici si perdono seguendolo buona parte della responsabilità ce l'ha chi nella Chiesa non esercita l'autorità per indicare la strada giusta.

mercoledì 19 dicembre 2012

flectamus genua

Ecco perché io mi inginocchio!




 
Vi sono ambienti, che esercitano notevole influenza, che cercano di convincerci che non bisogna inginocchiarsi.
 
Dicono che questo gesto non è conveniente per l'uomo maturo, che va incontro a Dio stando diritto, o, quanto meno, non si addice all'uomo redento, che mediante Cristo è divenuto una persona libera e che, proprio per questo, non ha più bisogno di inginocchiarsi.
 
Se guardiamo alla storia possiamo osservare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi, era cosa indegna di un uomo libero.
 
L'atto di inginocchiarsi è espressione della cultura cristiana e proviene dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio.
Infatti, l'espressione con cui Luca descrive l'atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta al greco classico.
 
Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo abbiamo da Lui.
 
Secondo Matteo (26,39) e Marco (14,35) Gesù si prostra, pregando al monte degli ulivi; Luca, invece, in tutta la sua opera - Vangelo e Atti degli Apostoli - ci racconta che Gesù pregava in ginocchio.
 
È esemplare, il gesto: il Figlio ripone la sua volontà nella volontà del Padre.
 
L'adorazione è uno di quegli atti fondamentali che riguardano l'uomo tutto intero.
Per questo il piegare le ginocchia alla presenza del Dio vivo è irrinunciabile.
Chi prega in ginocchio riconosce la grandezza di Dio e la propria debolezza.
Diventa piccolo davanti al Tutto Santo e riconosce di aver bisogno di qualcuno che lo rialzi e lo sollevi
Aldo Figliuzzi
Ed ecco due foto che dimostrano come una volta tutto ciò era molto compreso e vissuto dai fedeli (e non come si pensa oggi che la gente non capiva nulla della fede e non aveva consapevolezza di quello che celebrava...)

23 marzo 1919. Carlo I d'Asburgo e la moglie Zita Maria di Borbone-Parma, assistono alla Santa Messa inginocchiati sui binari della ferrovia alla partenza per la Svizzera, prima tappa dell'esilio imposto all'Imperatore austriaco dopo la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale.
(da notare tutti gli uomini presenti in ginocchio!)

Marzo 1945. Nella cattedrale di Colonia (Köln) distrutta dai bombardamenti degli "Alleati", si continua a celebrare la Santa Messa.
Di fronte al Santissimo Sacramento, i fedeli si inginocchiano

martedì 18 dicembre 2012

può la nuova pentecoste somigliare ad un naufragio ?


L'ottimismo conciliare può cambiare la realtà dei fatti?


di Don Christian Thouvenot * - 7 dicembre 2012

Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio
Cinquant'anni fa si apriva il 21° concilio ecumenico della Chiesa, il più importante di tutta la sua storia per il numero dei partecipanti ed anche il più atipico, se non altro per la volontà di « apertura al mondo » che ostentava nella sua seduta inaugurale (11 ottobre 1962).

Un nuovo umanesimo

Una delle caratteristiche del Vaticano II risiede nell'ottimismo radicale e fontale con cui ormai la Chiesa intendeva portare il suo sguardo sull'umanità. Un mese prima dell'apertura, papa Giovanni XXIII aveva assegnato a questo « incontro mondiale » lo scopo di « rendere per tutti l'esistenza terrena più nobile, più giusta, più meritoria » esaltando « le applicazioni più profonde della fraternità e dell'amore » (messaggio Ecclesia Christi lumen gentium, 11 settembre 1962). Più celebre è la fascinazione del papa nella sua allocuzione d'apertura Gaudet Mater Ecclesia, che segna il suo disaccordo di fronte « ai profeti di sventura » per farsi lirico : « Il Concilio che inizia sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. È appena l’aurora: ma come già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole sorgente! Tutto qui spira santità, suscita esultanza ». Il discorso di chiusura del Concilio, pronunciato da Paolo VI il 7 dicembre 1965, volle tradurre questo formidabile slancio di simpatia della Chiesa rinnovata nei confronti del mondo laico e profano : « ... e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo. » Ormai, « Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. »

Il fumo di Satana

Fu presto necessario disilludersi! L'annunciata primavera di una nuova Pentecoste non ebbe luogo. Meno di dieci anni dopo l'apertura del Vaticano II, papa Paolo VI partecipava il suo smarrimento. Il 29 giugno 1972, nella sua omelia per la festa dei santi Pietro e Paolo dichiarava : « Davanti alla situazione della Chiesa di oggi, abbiamo la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. Vediamo il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto.(…) È entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. Predichiamo l’ecumenismo e ci distacchiamo sempre di più dagli altri. Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli. Come è potuto accadere questo? È intervenuto un potere avverso il cui nome è il diavolo… ». Tuttavia, Paolo VI non voleva vedere in questa drammatica situazione la conseguenza delle riforme e delle novità distruttrici della vita cattolica introdotte dal Vaticano II, ma al contrario : « Noi crediamo all'azione di Satana che oggi si esercita nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio ecumenico, e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno della gioia di aver riavuto in pienezza la coscienza di sé. » Si continuò dunque ad applicare il Concilio, malgrado la crisi senza precedenti che scuoteva tutti i lembi della Chiesa : caduta delle vocazioni, rivoluzione liturgica, crisi degli ordini religiosi…

Il Sinodo del 1985

Vent'anni dopo la chiusura del concilio Giovanni Paolo II riunì un Sinodo per valutarne tutte le conseguenze. E questa fu la conferma di tutte le riforme, di tutte le nuove dottrine alle quali il papa volle dare la loro autentica dimensione. Si trattava di farle penetrare in tutto il popolo cristiano, da cui l'iniziativa di un nuovo Catechismo. Occorreva inoltre imprimere loro un nuovo dinamismo, da cui l'incontro interreligioso di Assisi, fatto inaudito che doveva essere « visto e interpretato da tutti i figli della Chiesa alla luce del concilio Vaticano II e dei suoi insegnamenti» (udienza generale del 22 ottobre 1986). Chi vuol comprendere la vera portata del Vaticano II e della trasformazione che esso ha operato nella religione cattolica deve, secondo il papa, riferirsi a questa riunione, la prima di molte altre: « L’evento di Assisi può così essere considerato come un’illustrazione visibile, una lezione dei fatti, una catechesi a tutti intelligibile, di ciò che presuppone e significa l’impegno ecumenico e l’impegno per il dialogo interreligioso raccomandato e promosso dal concilio Vaticano II ». (Giovanni Paolo II ai cardinali, 22 dicembre 1986).

L'apostasia silenziosa

Ahimè! Malgrado « la nuova evangelizzazione » evocata fin dall'inizio del suo pontificato, malgrado le molteplici Giornate Mondiali della Gioventù e il Giubileo dell'anno 2000, Giovanni Paolo II alla fine della sua vita doveva riconoscere l’esistenza d'una reale « apostasia silenziosa » all'opera in mezzo ai cattolici, soprattutto in Occidente. Non soltanto il mondo non aveva risposto alla corrente « d’affetto e d'ammirazione » traboccante dal Concilio, ma le conseguenze dell'apertura al mondo si rivelavano sempre più amare e sconcertanti. Poco prima che si spegnesse Giovanni Paolo II, colui che doveva succedergli descriveva la Chiesa come « una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti », e di cui Satana gioisce di veder prossima la caduta (cardinal Joseph Ratzinger, Via Crucis del Venerdì Santo 2005, 9a stazione). La nuova Pentecoste somiglierebbe ad un naufragio ?

Oggi

Ennesimo rilancio, il cinquantesimo anniversario dell'apertura del Vaticano II vuol ricollocare i suoi insegnamenti e le sue riforme nel cuore della vita della Chiesa, in occasione dell'Anno della Fede. Quest'ultima è presentata come una necessità urgente : « Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità (…), tutte le altre riforme rimarranno inefficaci», dichiara Papa Benedetto XVI (discorso ai cardinali, 22 dicembre 2011). Curiosamente, ciò significa che la fede deve « essere ripensata e vissuta in maniera nuova », – fede nuova della quale papa Giovanni XXIII voleva fosse quella del concilio che convocava cinquant'anni fa ! In effetti, egli « prospettava un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze », così come « la nuova evangelizzazione è iniziata proprio con il Concilio, che il Beato Giovanni XXIII vedeva come una nuova Pentecoste che avrebbe fatto fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente verso tutti i campi dell'umana attività » (discorso del 20 settembre 2012). Ritorno al punto di partenza…

Cinquant'anni dopo, « l'oggi della Chiesa » sembra essersi inesorabilmente fossilizzato sul concilio Vaticano II, orizzonte ineludibile, unica bussola d'una Chiesa in piena crisi, incapace di uscire da una nuova Pentecoste che nei fatti si rivela essere un disastroso crollo. Dai « fumi di Satana » all’« apostasia silenziosa », nulla sembra doverne turbare l'ottimismo ostentato, sempre in voga. E se, in occasione di questo anniversario, ci si ricordasse della richiesta di un arcivescovo missionario, che non smise di reclamare che lo si lasciasse « fare l'esperienza della Tradizione » ? Non una ulteriore avventurosa esperienza, ma un'esperienza collaudata, perché è stata provata da 2000 anni.
 
* Segretario generale della FSSPX
tratto da: http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2012/12/lottimismo-conciliare-puo-cambiare-la.html
 
 

lunedì 17 dicembre 2012

tasse e tiranni: criteri fondamentali

“Il cristiano non deve sempre tirarsi indietro, far la parte del moderato, del perennemente condannato alla perplessità, all’astensione e all’impotenza, lasciando così praticamente le fila del movimento della storia in mano a coloro che sono meno dotati di scrupoli; il cristiano, quindi, non deve rifiutare di usare la forza giusta, quando sia necessario in modo assoluto” (R. Pizzorni). Introduzione/attualità In questi ultimi mesi si parla molto del dovere di pagare le tasse, del danno grave che arrecano alla Società gli evasori fiscali. Tuttavia si omette di ricordare che vi sono tasse giuste, che vanno pagate sotto pena di peccato mortale e di reato penale, tasse ingiuste, che si possono evadere senza peccato e senza reato e addirittura tasse intrinsecamente e direttamente perverse, ossia direttamente contrarie alla legge divina, che debbono essere non pagate anche col rischio della propria vita. In quest’articolo cercherò di esporre ...
... un sunto della dottrina cattolica tradizionale a riguardo.
La dottrina cattolica
Se lo Stato esige dall’individuo un sacrificio non necessario al bene comune, come quando impone ai sudditi imposte troppo onerose (se per esempio le imposte dirette superino il 20% ed arrivassero al 50% di ciò che il capofamiglia guadagna) e che non giovano al bene pubblico, esse non obbligano in coscienza.
I moralisti in genere insegnano che l’imposta giusta non deve superare circa il 10 % -20 % del salario: “Bisogna riconoscere che in pratica gli Stati abusano del loro diritto di imporre i tributi, elevandoli a dismisura, senza un’adeguata ragione di bene comune, per cui facilmente i cittadini si convincono della poca giustizia dei tributi [...]. Per questo oggi i teologi parlano di rieducazione dello Stato e dei cittadini alle proprie responsabilità [imporre imposte giuste, e dovere di pagare le imposte giuste, nda]...” (Enciclopedia Cattolica, vol. XII, col. 512, Città del Vaticano, 1954).
È chiaro che non solo i cittadini hanno l’obbligo di pagare le tasse, ma soprattutto lo Stato deve essere rieducato ad imporre tasse giuste quanto alla materia (non oltre il 20%) e quanto al fine (per il bene comune della Nazione); esso deve trattare i contribuenti come cittadini e non come schiavi, se non vuole diventare tirannide (cfr. S. Th., II-II, q. 64, a.1, ad 5um). Ora si costata che soprattutto oggi le tasse sono ingiuste sia quanto alla materia (esse superano di gran lunga il limite del 20%) sia quanto al fine (non mi riferisco solo agli episodi di ruberie da parte dei governanti, ma soprattutto al fatto che oggi le Patrie non esistono più e si tende alla globalizzazione e alla costruzione del Nuovo Ordine Mondiale, che è il nemico delle Patrie e del bene comune dei cittadini). Il governo di tecnici, sotto apparenza di bene, sta instaurando una cleptocrazia e uno stato di polizia ove il benessere comune della Società civile e le vere libertà della persona sono quasi totalmente inesistenti. Se già da qualche decennio la situazione degli Stati è iniziata a degenerare, oramai si può parlare di vera e propria tirannia. Cerchiamo di vedere qual è la giusta attitudine da adottare in questo stato di cose.
Resistenza alle leggi ingiuste
Una legge può essere ingiusta in due maniere:
a) se prescrive una cosa direttamente contraria al diritto divino (es. aborto, divorzio, matrimoni omosessuali ed eutanasia …).
b) Se si oppone al diritto umano (imposte troppo onerose, che sorpassano il 10-20% di quanto guadagna il capo famiglia). Le tasse ingiuste (contrarie al diritto umano) se sono utilizzate dallo Stato anche per un fine cattivo (per la pratica degli aborti) diventano indirettamente contrarie al diritto divino.
In tutti i casi tali prescrizioni “non hanno alcuna forza di legge, perché sono in disaccordo - scrive Leone XIII - con i princìpi della retta ragione e gli interessi del bene pubblico” ([1]) e quindi non obbligano in coscienza. Per quanto riguarda le tasse ingiuste è lecito perciò praticare la ‘compensatio occulta’, ossia possono essere evase, e, se vengono impiegate direttamente per un fine contrario alla legge divina, debbono essere evase (per esempio se arrivasse al cittadino una cartella delle imposte con specificata richiesta di un importo per la pratica degli aborti, bisogna fare l’obiezione di coscienza anche a costo di grave incomodo, pure sotto pena di morte). Se invece le tasse sono impiegate soltanto indirettamente per un fine contrario alla legge naturale e divina (se arriva la richiesta delle tasse con cui lo Stato finanzia anche gli aborti, senza che ciò sia specificato e venga richiesta una somma per questo fine intrinsecamente malvagio) possono essere evase a condizione che non obblighino con grave incomodo (persecuzione, carcere, uccisione).
Si può obiettare: chi ha il diritto di giudicare se una legge è nociva? La risposta è semplice: ogni coscienza retta è normalmente in grado di discernere; nei casi difficili bisogna farsi illuminare da uomini prudenti e competenti, possibilmente ecclesiastici. In breve, la tradizione scolastica, quasi unanimemente, riconosce che la Nazione ha il diritto di resistenza, che può giungere, come extrema ratio, sino alla rivolta e alla deposizione del tiranno.
Liceità della resistenza alla legge ingiusta
Il Padre gesuita Andrea Oddone ha scritto nel 1944-45 che la resistenza passiva è sempre lecita nei riguardi di una legge ingiusta. La resistenza attiva legale, in casi in cui la religione è messa in pericolo, è lecita, anzi occorre ²deplorare - come insegna Leone XIII nell’Enciclica Sapientiae christianae del 1890 - l’attitudine di coloro che rifiutano di resistere per non irritare gli avversari”. La resistenza attiva armata è legittima:
a) se la tirannia è costante;
b) se è manifesta o giudicata tale dalla “sanior pars” della società;
c) se le probabilità di successo sono numerose;
d) se la situazione successiva non si prevede peggiore dell’anteriore ([2]).
Ai nostri giorni il Padre domenicano Reginaldo Pizzorni insegna che l’obbligazione appartiene all’essenza della legge, perché sarebbe inconcepibile una legge non obbligante; però si pone una domanda: “Siamo sempre tenuti a ubbidire alla legge umana?; oppure: è lecita la resistenza alla legge ingiusta?, è ‘un sacro dovere’ la resistenza all’oppressione?” ([3]).
Per i Padri e i Dottori della Chiesa la risposta è unanime. S. Agostino dice: “legge ingiusta, legge nulla” ([4]) ; essa non è più legge sed corruptio legis. Parimenti “un’autorità che non s’ispirasse alla giustizia sarebbe tirannide e la sua legge non avrebbe più un valore intrinseco di giuridicità, ma sarebbe solo una perversione della legge, più che una legge sarebbe un’iniquità, per cui non ha più natura di legge, ma di in-giustizia. Quindi [...] non è assolutamente vincolante, perché nulla che è contro la ragione è permesso” ([5]). In questi casi non solo è lecito non ubbidire, “ma sarà moralmente legittima anche la resistenza, benché i limiti della stessa siano segnati dalla conservazione del bene comune, che deve prevalere sul bene individuale [...]. Pertanto anche delle leggi ingiuste, a meno che non si tratti di leggi contrarie direttamente al bonum divinum, nel qual caso in nessun modo si possono osservare (S.Th., I-II, q. 96, a. 4), possono obbligare per [...] salvare l’ordine e la tranquillità dello Stato. [...]. Non bisogna tuttavia temere tra i sudditi solo lo spirito di ribellione, ma anche quello del servilismo” ([6]).
Per quali motivi, prosegue padre Pizzorni, “la legge è propriamente ingiusta? Per due motivi:
1°) Perché in contrasto col bene umano:
a) sia per il fine, come quando chi comanda impone al suddito leggi onerose (come le tasse sproporzionate), non per il bene comune, ma piuttosto per la sua cupidigia (l’arricchimento dei politicanti);
b) sia per l’autorità, come quando uno emana una legge superiore ai propri poteri [per esempio lo Stato che voglia legiferare in spiritualibus] ; [...]. Perciò codeste leggi non obbligano in coscienza; a meno che non si tratti di evitare scandali o turbamenti [...].
2°) Perché contrarie al bene divino: come le leggi che portano direttamente all’idolatria [...]. E tali leggi in nessun modo si possono osservare; poiché sta scritto: ‘Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini’ (Atti, V, 29)” ([7]).
Nel resistere alla legge ingiusta occorre distinguere la resistenza passiva da quella attiva.
La resistenza passiva consiste nella non esecuzione della legge ingiusta, fino a che non vi si è costretti con la forza; ma nel caso in cui la legge ingiusta comandi qualcosa di peccaminoso, “un atto intrinsecamente cattivo in sé, la resistenza non solo è permessa, ma è sempre obbligatoria; non si possono eseguire ordini criminali” ([8]).
La resistenza attiva, a sua volta, si suddivide in :
a) Resistenza attiva non violenta: consiste in un’opposizione positiva alla legge ingiusta, compiuta sul terreno delle leggi o con mezzi legali, per es. pubbliche riunioni, proteste, petizioni, ricorso ai tribunali. “Occorre non rifugiarsi nell’indifferenza e nell’inerzia di coloro che non sanno o non vogliono organizzarsi e lottare per una causa nobile e giusta, per timore e viltà di affrontare i sacrifici e i maggiori doveri che questa lotta porta con sé [...]. ‘A chi cadrebbe in animo di tacciare i cristiani dei primi secoli di nemici dell’Impero Romano, solo perché non si curvavano dinanzi alle prescrizioni idolatriche, ma si sforzavano di ottenerne l’abolizione?’ (Leone XIII, Lettera ‘Notre Consolation’ ai cardinali francesi , 3 maggio 1892)” ([9]) .
b) Resistenza attiva violenta o a mano armata: “Quando la legge ingiusta cerca di imporsi con la violenza e con la forza, è lecito ai cittadini organizzarsi e armarsi, opporre la forza alla forza” ([10]). Padre Pizzorni continua: “il diritto di resistenza è generalmente ammesso, e, da S. Tommaso in poi, salvo rare eccezioni, è stato ammesso anche da tutti i teologi come ultima ratio, come ultimo ed estremo rimedio, quando tutti gli altri mezzi previsti non sono possibili o si sono dimostrati insufficienti” ([11]).
Tuttavia, occorre specificare che secondo l’Angelico le condizioni richieste per la liceità della resistenza attiva, violenta o a mano armata sono quattro:
1°) la tirannide deve essere costante e abituale, tale da rendersi intollerabile, e ciò vale sia per il tiranno di usurpazione che per quello di governo (De regimine principum I, 7).
2°) La gravità della situazione deve essere manifesta, non solo a una qualsiasi persona privata, ma alla sanior pars populi.
Qualora non vi sia un superiore del re, come l’Imperatore o il Papa che deponeva i tiranni, secondo S. Tommaso è la vox populi o la multitudo, ossia la comunità, che debbono farsi sentire, guidate dal consiglio degli homines virtuosi. Così “quelle persone non agirebbero più come persone private, ma come persone autorizzate dal popolo, la qual cosa è richiesta perché il punire è un atto di giurisdizione che richiede un superiore” ([12]).
3°) Ci deve essere una fondata speranza di riuscita: altrimenti non vi sarebbe ragion sufficiente di insorgere, per il pericolo di inasprire la tirannide. La resistenza armata deve perciò essere ben organizzata, ben concordata e ben condotta.
4°) La caduta del tiranno non deve creare una situazione peggiore di quella in cui si stava prima.
“Il cristiano non deve sempre tirarsi indietro, far la parte del moderato, del perennemente condannato alla perplessità, all’astensione e all’impotenza, lasciando così praticamente le fila del movimento della storia in mano a coloro che sono meno dotati di scrupoli; il cristiano, quindi, non deve rifiutare di usare la forza giusta, quando sia necessario in modo assoluto” ([13]).
La tirannide
Secondo S. Tommaso l’essenza della tirannide si esprime nei comandi rivolti dall’Autorità ai sudditi non in quanto soggetti della società bensì come schiavi (S. Th. , II-II, q. 64, a.1, ad 5um). I commentatori dell’Angelico, ad esempio il Gaetano ([14]) e Suarez ([15]), distinguono tra tiranno d’usurpazione e tiranno di governo.
1°) Il Tiranno d’usurpazione è l’ingiusto aggressore di un potere legittimo. All’inizio del suo operare, egli è senza titolo legittimo, ma dopo un certo tempo può giungere ad imporsi e la Nazione può accettarlo come suo capo legittimo.
2°) Il Tiranno di governo è un sovrano legittimo, regolarmente investito del potere. Ma egli abusa dell’autorità, non governando per il bene comune dei sudditi, bensì per il proprio.
Tirannia e legittimità
Nessuna società potrebbe sussistere senza un capo che comanda e dirige i sudditi verso il bene comune. Dio ha voluto la società, avendo creato l’uomo animale sociale, e perciò necessariamente ha voluto l’autorità, che procede da Dio. L’autorità, la cui missione è la salus populi suprema lex , ha, però, dei limiti. Il ruolo del potere e la sua ragion d’essere è di spingere ognuno verso il bene comune. “Se l’autorità fallisce questa missione perde non soltanto il diritto di comandare, ma la ragion d’essere” ([16]).
Perdita della legittimità
La Scolastica riteneva che l’abuso di potere fosse il caso principale di realizzazione di una tirannia: “Gli scolastici, da S. Tommaso a Suarez, non esitano a dire che la Nazione ha il diritto di destituire, di deporre, di cacciare il tiranno, poiché ha perso il diritto di regnare ed è diventato illegittimo. Ma bisogna che l’abuso sia grave, permanente e universale [...]. Secondo gli scolastici, il potere del principe decaduto ritorna al popolo o alla Nazione che glielo aveva affidato” ([17]).
La resistenza al tiranno
Nell’XI secolo, Manegold da Lautenbach ([18]) equiparava il principe-tiranno “ad un guardiano di porci; se il pastore, invece di far pascere i porci, li ruba, li uccide o li smarrisce, è giusto rifiutargli di pagargli il salario e scacciarlo ignominiosamente” ([19]). «In Manegoldo - scrive Padre Carlo Giacon - vi è tutta una teoria logicamente connessa [...] è legittima l’autorità che governa secondo la legge di Dio [...] e siccome il potere è nel re perché datogli immediatamente dal popolo [e mediatamente da Dio, nda] [...] per cui il popolo è obbligato ad ubbidire e i re a ben governare [...] se il re va contro la legge naturale e divina... da sé rinuncia al diritto di governare [...] giudicato come un pubblico nemico, è legittima la resistenza e la difesa contro di lui» ([20]). S. Tommaso nel De regimine principum insegna che, “se appartiene di diritto alla moltitudine di darsi un capo, essa può, senza ingiustizia, condannare il principe a disparire, o può mettere freno al suo potere se ne usa tirannicamente...” ([21]). Tuttavia per l’Angelico, «anche se alcuni insegnano essere lecita l’uccisione del tiranno per mano di un qualsiasi privato [...], è pericolosissimo permettere l’uccisione privata del tiranno, perché i malvagi si riterrebbero autorizzati a uccidere i re non tiranni, severi difensori della giustizia [...] contro i tiranni eccesivi e insopportabili si può agire solo in virtù di una pubblica autorità» ([22]). La stessa dottrina è insegnata da Bañez ([23]) Billuart ([24]) Bellarmino ([25]) Suarez ([26]). La tradizione scolastica è quasi unanime nel riconoscere il diritto di resistenza, che - in casi estremi - può giungere alla rivolta armata. Juan De Mariana opina che il tirannicidio sia lecito anche privata auctoritate, perché non è da condannarsi colui che, eseguendo la comune volontà, procura di sopprimere il tiranno ([27]). Tuttavia, per il Mariana, non significa che a ciò basti l’iniziativa semplicemente privata, occorre prima una condanna pubblica del tiranno e solo poi, come extrema ratio, l’esecuzione può essere privata, quando non si possa raggiungere l’autorità superiore; allora, fondandosi sulla condanna pubblica, senza un mandato esplicito del potere pubblico e solo con mandato interpretativo e presunto, si esegue il tirannicidio ([28]). Il cardinal Tommaso Zigliara scrive: “i soggetti possiedono il diritto di resistere passivamente, vale a dire di non obbedire alle leggi tiranniche... di resistere alla violenza del potere esecutivo, respingendo la violenza colla violenza, e questa è la resistenza difensiva” (Summa philosophica, tomo III, Lione, 1882, pagg. 266-267) ([29]) .
Conclusione/attualità
Come si vede questi princìpi si confanno alla situazione presente. Tasse smodate, non utilizzate per il bene comune della Nazione, ma indirettamente utilizzate per scopi contrari al diritto naturale e divino. I cittadini, specialmente la classe medio-bassa, vengono trattati più come schiavi che come uomini (il numero elevato di suicidi di persone che non arrivano più alla fine del mese perché oberate di tasse è impressionante). Ora in questo caso secondo S. Tommaso l’essenza della tirannide si esprime esattamente nei comandi rivolti dall’Autorità ai sudditi non in quanto soggetti della società bensì come schiavi (S. Th. , II-II, q. 64, a.1, ad 5um). Quindi ci si trova in uno stato di regime tirannico. Tuttavia se la dottrina cattolica ammette la reazione anche attiva a questo stato di cose in pratica occorre tenere ben presenti le condizioni esposte dagli Scolastici per non “mettere una pezza peggiore del buco” e cadere nel caos anarchico o nella guerra civile costante, che – data l’esasperazione dei cittadini tartassati – purtroppo stanno iniziando a prevalere in questi giorni, con episodi di violenza privata e spontanea, i quali pur se comprensibili, tuttavia, impediscono la reazione ben organizzata, ben concordata e ben condotta e favoriscono l’instaurazione di uno Stato di psico-polizia tributaria.
Di fronte ad un Leviatano così potente e quasi universale come è il potere mondialista odierno ci si sente quasi impotenti per reagire come si dovrebbe. Tuttavia ci resta un’arma che nessuno potrà mai strapparci: la preghiera che ottiene l’intervento della Onnipotenza divina infinitamente misericordiosa, ma anche infinitamente giusta e molto più esigente verso il potente che verso il debole.
d. CURZIO NITOGLIA
12 maggio 2012
 
 
[1]) Enciclica Sapientiae christianae, 10 gennaio 1890.
[2]) A. ODDONE, “La resistenza alle leggi ingiuste secondo la dottrina cattolica” in Civiltà cattolica, n.° 95, 1944, pp. 329-336; Ibid., n.° 96, 1945, pp. 81-89.
[3]) R. Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo, in S. Tommaso D’Aquino, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1999, p. 348.
[4]) De libero arbitrio, I, 5; PL, XXXII, 1227.
[5]) R. Pizzorni, op. cit., p. 352.
[6]) Ibidem, pp. 353-354.
[7]) Cfr. S. Th., I-II, q. 96, a. 4.
[8]) R. Pizzorni, op. cit., p. 358.
[9]) Ibidem, p. 359.
[10]) Ibidem, p. 360.
[11]) Ibidem, p. 361.
[12]) Ibidem, p. 365.
[13]) Ibidem, p. 369.
[14]) In Summ. Th., II-II, q. 64, a. 1, ad 3um.
[15]) De virtutibus, disput. XIII, sect. VIII, Opera omnia, éd. Vivès, t. XII, p. 759.
[16]) D. Th. C., vol. 29, col. 1952.
[17]) D. Th. C., vol. 29, col. 1962.
[18]) Cfr. O. Capitani, Papato e Impero nei secoli XI e XII, in «Storia delle idee politiche economico e sociali», diretto da L. Firpo, vol. 2°, tomo II, Il Medioevo, Torino, Utet, 1983; pp. 141-165.
[19]) Liber ad Gebehardum, cap. XXX.
[20]) C. Giacon, La seconda scolastica. I problemi giuridico-politici: Suarez, Bellarmino, Mariana, Milano, Bocca, 1950, vol. 3°, pp. 89-90.
[21]) De regimine principum, Lib. I, cap. 6.
[22]) C. Giacon, ibidem, p. 98.
[23]) In IIam-IIae, q. 64, a. 3, concl. 1, Opera, Salamanca, 1584-1612.
[24]) De jure et justitia, dissert. X, a.2, ad 3um, Liège, 1746-51.
[25]) De concil. auctorit., lib. II, cap. 19, Ingolstadt, 1586-1593.
[26]) Defensio fidei, lib. VI, cap. IV, §15, Colonia, 1614.
[27]) Cfr. De rege et de regis institutione, lib. I, cap. VI, p. 76, Toledo, 1599.
[28]) Cfr. C. Giacon, op. cit., pp. 271-272.
[29]) D. Th. C., vol. 29, col. 1670.
 
 
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