giovedì 13 dicembre 2012

traditio


COME APRIRE LA PORTA DELLA CORRETTA
INTERPRETAZIONE CONCILIARE?
RIFLESSIONI SU UN SAPIENTE STUDIO
DI MONS. BRUNERO GHERARDINI
di Cristina Siccardi

Il Concilio Ecumenico Vaticano II è o non è un Concilio di continuità, è o non è un Concilio di rottura? La deduzione è shakesperiana: «Questo è il problema».

Si tratta di una questione che entra nei meandri non solo intellettivi della Chiesa, ma della sua stessa coscienza. Dopo cinquant’anni di amari frutti conciliari, in una società secolarizzata, “grazie” non solo ai nemici della Chiesa, ma anche delle corrotte e corrompenti ideologie filosofiche e teologiche che si sono in essa introdotte con mefistofelica astuzia, la scottante problematica è finalmente affrontata, come dimostra da alcuni anni il teologo Monsignor Brunero Gherardini. La rivista internazionale e quadrimestrale di ricerca e di critica teologica «Divinitas», con sede nella «Città del Vaticano», sul numero 3 del 2012, ha pubblicato un suo articolo dal titolo Continuità o rottura?

Partendo dalla celebre allocuzione del Santo Padre alla Curia del 22 dicembre del 2005, Gherardini sviluppa un pensiero teologico di perfetta logicità e coerenza. Benedetto XVI quel giorno si soffermò su un dramma, «mise a fuoco il problema dell’interpretazione dei testi conciliari, contrapponendo l’ermeneutica della continuità a quella della rottura, commentatori di varia estrazione e variamente autorevoli son tornati più volte in argomento. E non senza ragione, trattandosi di risponder al quesito se la Chiesa, oggi e domani, sarà quella di sempre o se, per sopravvivere, dovrà darsi un assetto diverso»[1]. Benedetto XVI, parlando di ermeneutiche, dunque di interpretazioni, sottolinea Gherardini, ha messo in luce un principio basilare: «un Concilio non sarà mai di rottura, perché dipende dalla sua continuità con la dottrina di sempre»[2].

La quaestio non è una semplice e mera speculazione intellettuale, essa scava in profondità questo dramma per aprire, con il bisturi appropriato, il bubbone nel quale si sono annidati microbi infettivi.

Il Papa individuò due “litiganti”: i sostenitori dell’ermeneutica della rottura e quelli dell’ermeneutica della continuità, ovvero quelli della discontinuità e quelli della riforma, coloro che propugnano il rinnovamento nella continuità del soggetto Chiesa. Due fronti ben distinti, dove ognuno dichiara di avere ragione e che sono in continua antitesi: ma i litigi sono destinati, prima o poi, a terminare, e uno dei due dovrà sottomettersi umilmente alla ragione dell’altro, perché, come la dottrina è portatrice della Verità, così la Chiesa è chiamata a trasmettere, nel modo corretto (onde non contaminare o corrompere quella Verità), l’unica e sola Rivelazione fatta da Cristo, quando s’incarnò nel tempo e nel mondo. «Se si riesce ad impostare correttamente l’argomento, i lamentati “litigi” fra le due ermeneutiche non avranno più motivo né occasione d’insorgere; anzi, non potranno più esserci due ermeneutiche. Dal canto loro i pastori, teologi, studiosi e lettori del Vaticano II troveranno, in questo stesso valore, la chiave di volta per un’obiettiva e corretta interpretazione conciliare»[3]. La chiave è una (proprio come una è la Verità), si chiama Tradizione e l’Autore della Tradizione è Cristo.

Monsignor Gherardini sviluppa un discorso che segue una dialettica teologica ineccepibile. Primo scalino da affrontare risulta essere quello del significato etimologico di Tradizione. Tradizione deriva dal sostantivo traditio e dal verbo tradere, ossia «trasmettere, tramandare». L’autore spiega come tali termini siano passati dalla religione ebraica, dove veniva trasmessa, in ebraico/aramaico, la Tôrā, a quella cristiana, attraverso la lingua greca e poi quella latina. Il concetto era lo stesso ed è rimasto tale anche se immesso nelle lingue moderne: ricevere e ritrasmettere gli insegnamenti di un preciso e medesimo contenuto.

La Tradizione racchiude il passato, si innesta nel presente e si getta nel futuro, perennemente giovane, dai tratti che riconducono al “per sempre”, seppur inserita nella storia. «In tal senso, la Tradizione non è affatto una specie di predominio del passato sul presente e sul futuro, i quali, se un tale predominio si verificasse – come vorrebbe il tradizionalismo – ne verrebbero fagocitati e cesserebbe la storia; è tuttavia un valore […] determinante-vincolante-obbligante per il senso che conferisce al presente, preparando così il domani ed in esso proiettandosi»[4].

Benché molti cattolici e molti “falsi profeti” e falsi maestri, non si facciano il benché minimo scrupolo (pensiamo a nomi come quello di Enzo Bianchi, di Alex Zanotelli, di don Andrea Gallo, di don Luigi Ciotti), nella Chiesa la Tradizione è: determinante (dunque fondante), vincolante (quindi inderogabile), obbligatoria (assume un carattere di legge) e per tali ragioni ad essa si deve massimo rispetto e massima obbedienza. Se la Tradizione non viene soffocata e silenziata, non si annacqua, né si disperde nella storia, «ma è generatrice di essa. Da qui l’idea della sua vera ed autentica vitalità»[5] che fa da controcanto alla falsa «Tradizione vivente», espressione utilizzata da coloro che vogliono giustificare un’innovazione sostanziale nella Chiesa, incompatibile con la Tradizione «come una rosa o un giglio non fioriscono, di per sé, organicamente, da una quercia o da un ciliegio»[6].

Dal significato etimologico, l’autore passa poi al concetto teologico di Tradizione. Il pensiero si sofferma sull’azione di tale lemma: la Divina Rivelazione va custodita gelosamente e deve essere trasmessa con fedeltà ed ecco tre verbi che si richiamano l’uno dopo l’altro nel processo di trasmissione: tradere-recipere-docere e ciò riguarda sia il passaggio orale, sia la sua fissazione nella Scrittura.

L’organo che trasmette la Tradizione cristiana è stato individuato e creato dallo stesso Rivelatore, il Figlio di Dio: la Chiesa, fondata su san Pietro, una Chiesa formata da persone che hanno ricevuto una precisa ed autorevole investitura e che va sotto il nome di consacrazione nella successione apostolica. A questo punto la Tradizione porta con sé altri esercizi: predicare, insegnare, evangelizzare (la Chiesa è di natura missionaria e mai potrà rinunciare al mandato del Redentore di portare l’annuncio della Salvezza a tutte le genti, di qualsiasi religione esse siano) e per compiere tali mansioni si affida proprio ai successori degli Apostoli, responsabili della sana dottrina e garanti della Verità trasmessa. In tal modo Tradizione e Successione sono due aspetti di una stessa realtà che racchiude alcuni elementi costitutivi:

«a. quanto all’origine, il risalire agli apostoli di successione in successione;

b. quanto al contenuto, la continuità dell’insegnamento apostolico;

c. quanto all’autorità, quella stessa degli apostoli, che perciò è normativa della Fede»[7].

Con onestà intellettuale si può affermare che nel Concilio Vaticano II si sono dette cose nuove, che mai erano state contemplate nella Tradizione della Chiesa; si sono pianificate proposte innovative, che mai si sono delineate nella Tradizione; si sono intraprese strade temerarie, come l’ecumenismo e la libertà religiosa, iniziative che hanno portato spesso ad una sventurata ed infelice sottomissione all’opinione pubblica e alle ideologie dettate dal momento storico in corso; si pensi, per esempio, al silenzio sul Comunismo da parte dell’Assise apertasi 50 anni fa, all’Ostpolitik che ne seguì e al corrispettivo martirio della Chiesa del silenzio nei Paesi dell’Est.

Lo stesso Sommo Pontefice, ultimamente, ha pubblicato un testo dove riserva due critiche e una sospensione di giudizio a tre documenti conciliari: Gaudium et spes, Dignitatis humanae e Nostra aetate[8].

È chiaro che nei testi conciliari il linguaggio di stampo liberale si è imposto in maniera evidente, misconoscendo quello caratteristico della Tradizione; anche per questa ragione, là dove esiste un richiamo tradizionale, si riscontrano, senza neppure troppa fatica, contrasti, scordature e talvolta vere e proprie contraddizioni che confondono il fedele che ogni domenica pronuncia il Credo con seria e profonda convinzione, e non solo per abitudine.

La Tradizione è la vita della Chiesa, non può essere contraddetta ed è lei ad essere legittimata per giudicare le novità proposte e non viceversa. Nella «storia ecclesiastica dagl’inizi alla fine, mai nessun Papa e mai nessun vescovo avranno diritto all’ascolto qualora insegnino a titolo personale o come privati dottori. Solo in quanto successori degli apostoli, infatti, son Magistero autentico infallibile irriformabile, avendo esso:

a. il suo oggetto nella dottrina apostolica;

b. il suo compito, nel trasmetterla inalterata;

c. la sua autorità magisteriale, in quella delle dottrine apostoliche autorevolmente insegnate in nome e come “voce” della Chiesa»[9].

Da questo studio emerge plasticamente l’impossibilità da parte della Chiesa di prescindere dalla Tradizione, altrimenti non sarebbe più la Chiesa fondata dal Salvatore: in questo san Paolo è chiarissimo, l’antica Tôrā è stata sostituita da Cristo, l’Apostolo delle genti l’accoglie e la ritrasmette, invitando gli altri a fare altrettanto; se ciò non avvenisse significherebbe commettere un tradimento, perciò la «Chiesa vive di questo recepire Cristo e ritrasmetterlo nel tempo, fin al suo epilogo»[10]. Così parla Gherardini, così parla sant’Agostino: «“non nisi apostolica auctoritate creditum”[11]: non credo per altro motivo che per l’autorità apostolica con cui la Chiesa mi dice di credere»[12]. Tutti coloro a cui è stato consegnato il deposito della Fede sono responsabili dell’integrità di ciò che hanno ricevuto integralmente: da duemila anni, questi chiamati-eletti hanno insegnato ciò che hanno appreso e hanno trasmesso ciò che hanno ricevuto, «questa e soltanto questa è Chiesa viva!»[13].

Qui non c’è fumo, ma concretezza, infatti l’autore offre delle prove con la sua analisi alla Costituzione apostolica Dei Verbum: alcuni punti sono in corrispondenza perfetta con il Concilio di Trento e con il Concilio Vaticano I a riguardo della tematica Tradizione; ma altri sono incongruenti fino ad avere due prospettive diverse nello stesso documento: in DV 9 si parla esplicitamente di unità, come una cosa sola, come somma dell’intera Rivelazione, fra la Scrittura Sacra e la Tradizione, le quali perseguono lo stesso scopo; ma in DV 10 il concetto muta e viene introdotta, invece, la distinzione fra Scrittura e Tradizione. A chi credere, dunque, al principio enunciato prima o a quello successivo?

Inoltre, sempre nella Costituzione dogmatica non è chiaro se Tradizione, Scrittura e Magistero (DV 10/e) sono connessi e congiunti, tanto da non poter essere divisi, oppure se i tre soggetti, pur lavorando nella comune finalità salvifica, hanno identità autonome (DV 10/c): «la Scrittura diventerebbe solo il ricettacolo scritto, e come tale solennemente riconosciuto dal Magistero, della predicazione ecclesiastica e quindi della Tradizione. Il Magistero impersonerebbe l’una e l’altra, assumendone l’autorità e rendendo problematica la sua condizione di loro “servo”.

Va detto con tutta franchezza che il giudizio del Magistero è inappellabile e decisivo. Ma lo è solo se rimane nell’ambito del suo “servizio”, quello stabilito dalla Rivelazione stessa: custodire cioè ed esporre fedelmente le verità salvifiche, contenute nel deposito o come “dette” o come “scritte”. Al di fuori di questi limiti, verrebbe meno a se stesso. Pertanto, neanche al Magistero, così come a nessun cristiano, è lecito esporre come contenute nel sacro deposito idee proprie o dottrine desunte dalla dialettica filosofico-scientifica d’un determinato momento storico; ancor meno è lecito vincolar ad esse la libertà della coscienza individuale ed ecclesiale. Non saremmo, in tal caso, di fronte al Magistero, ma al suo tradimento»[14].

Chiesa e Tradizione sono inscindibili e hanno lo stesso fine: la salvezza delle anime; non così accade fra Chiesa e mondo, con esso ci possono essere delle frequentazioni diplomatiche e di opportunità, ma mai di comunione di intenti, perché il mondo può portare alla perdizione delle anime. Ha scritto Benedetto XVI a proposito della Gaudium et Spes: «Tra i francesi si mise sempre più in primo piano il tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, ovvero il lavoro sul cosiddetto “Schema XIII”, dal quale poi è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio. La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi? Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello “Schema XIII”. Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale»[15].

Occorre fare un distinguo: il Cristianesimo è Tradizione e non conservazione: «Conservazione è chiusura al nuovo; tradizione è passaggio da un’era ad un’altra»[16]; un grande inganno ed un’abissale infedeltà, poi, si verifica quando si muta la prospettiva teologica di Tradizione, non considerandola più scrigno dell’unica e sola divina Rivelazione, ma valutandola e misurandola alla luce della storia, quest’ultima intesa come immanente forza evolutiva, dando, in tal modo, ampio spazio alle soggettive “verità”, spesso in contrasto con quelle rivelate. Quanti, appellandosi al Concilio Vaticano II, si sono permessi di proteggere innovazioni, rivoluzioni, posizioni erronee? Se ne potrebbe scrivere un’enciclopedia intera, ma, piuttosto che confezionare una simile opera, sarebbe molto più benefico e salutare, come auspica Monsignor Gherardini e tutti coloro che comprendono che la Tradizione è l’antidoto alle sostanze venefiche che sono state inoculate nella Chiesa, sottoporre a verifica i documenti conciliari, facendo emergere le novità moderne che sono in contrapposizione con gli insegnamenti di sempre e che hanno prodotto quelle stesse ermeneutiche in lite fra di loro.





[1] B. Gherardini, Critica teologica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica, Città del Vaticano, Anno LV, n. 3-2012, p. 321. (Il neretto è nel testo originale).

[2] Ivi, p. 351.

[3] Ivi, pp. 324-325.

[4] Ivi, p. 329.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, p. 324.

[7] Ivi, p. 331.

[8] Per approfondire vedi di P. Pasqualucci, Sulle recenti critiche di Benedetto XVI al Concilio Vaticano II: http://www.conciliovaticanosecondo.it/2012/11/18/sulle-recenti-critiche-di-benedetto-xvi-al-concilio-vaticano-ii/

[9] Ivi, p. 332.

[10] Ivi, p. 333.

[11] Agostino, De bapt. Cont. Donatum, 4,24 PL 43.174.

[12] B. Gherardini, Critica teoligica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», art. cit., p. 334.

[13] Ibidem

[14] Ivi, pp. 344-345.

[15] Benedetto XVI racconta, in «L’Osservatore Romano», 11 ottobre 2012 (numero dedicato al cinquantenario del Concilio Vaticano II), p. 6.

[16] B. Gherardini, Critica teologica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», art. cit., p. 346.

 

orientare l’ermeneutica della continuità alla puntuale, solenne verifica della continuità e della rottura nei singoli documenti del Vaticano II e dei suoi pronunciamenti

Le oscillanti tesi sulla Tradizione

nei documenti del Concilio Vaticano II



Per la fede illuminata, per la benigna profondità del pensiero, per la stupefacente erudizione e per l’obbedienza al sommo Pontefice, monsignor Brunero Gherardini è ritenuto universalmente legittimo erede e continuatore della prestigiosa scuola teologica romana e sicura guida alla corretta lettura dei non sempre univoci documenti del Vaticano II.

Nel numero 3/2012 dell’autorevole rivista Divinitas, monsignor Gherardini pubblica un saggio di ermeneutica della continuità, un testo magistrale, che finalmente dirada le nebbie, fatte scendere dall’immotivata euforia degli scolarchi modernizzanti sull’antica, indeclinabile dottrina, che contempla le due fonti della Verità cattolica, la Tradizione e la Sacra Scrittura.

La finalità dello scritto inteso a far chiarezza, dopo tanti fraintendimenti, sul concetto di Tradizione, è ristabilire l’unità cattolica, oggi insidiata dalle aspre dispute intorno all’ermeneutica della continuità o all’ermeneutica della rottura.

Afferma monsignor Gherardini:
«C’è un valore di fondo, cui di necessità si richiama l’ermeneutica della continuità, sistematicamente infranto, però, da quella della rottura: la Tradizione. Se si riesce ad impostarne correttamente l’argomento, i lamentati litigi fra le due ermeneutiche non avranno più motivo né occasione d’insorgere, anzi, non potranno più esserci due ermeneutiche. Dal canto loro pastori, teologi, studiosi e lettori del Vaticano II troveranno, in questo stesso valore, la chiave di volta per un’obiettiva e corretta interpretazione conciliare».
Correttamente l’Autore avvia il suo ragionamento stabilendo l’esatto significato della parola Tradizione:
«La spiegazione etimologica di tradizione descrive un arco linguistico che, con radici nel lontano ebraico/aramaico, risale attraverso il greco e il latino e si riproduce come un calco dell’espressione latina nella lingua italiana, così come in altre lingue e sempre con lo stesso significato di trasmissione-consegna».
Stabilito che la comunicazione orale è lo strumento della Tradizione e che la Tradizione emerge come fonte della Fede e della Verità rivelata, l’Autore rammenta che gli Apostoli hanno derivato il loro concetto di Tradizione molto più dal mondo giudaico che da quello ellenistico:
«Stando al pensiero di J. Raft, si tratta sempre e comunque d’una tecnica di trasmissione e comunicazione orale della verità rivelata, della qual cosa fa fede lo stesso Paolo, il quale trasmette, secondo il modello della scuola rabbinica cui appartiene, quanto ha egli pure ricevuto. Con lui ne fanno fede le comunità cristiane che accolgono il messaggio degliA come quello stesso di Cristo».
In tal modo è dimostrato che la Tradizione «è la vita stessa della Chiesa, oltre che la sua Fede e la sua prassi, solo se è apostolica». La Tradizione ovviamente non la Sacra Scrittura, che «trova anzi in questa la sua fondazione. È essa stessa evangelo o lieta notizia come lo è la scrittura, pur non essendo unum et idem né qualitativamente né quantitativamente, con essa».

Il riconoscimento delle due fonti della Fede cattolica – «la teoria delle due fonti, una indipendente dall’altra ma ambedue collegate insieme dal Magistero ecclesiastico nell’unità di un’unica e medesima Fede» – allontana la tentazione di menomare alcune verità di Fede, ad esempio i dogmi mariani, dedotti dalla Tradizione e non dalla Sacra Scrittura. Una tendenza rovinosa, che si è impadronita del pensiero degli ermeneuti della discontinuità, suggestionati e infatuati dall’errore intorno alla sola scriptura dettato dalla rabbia antiromana a Martin Lutero.

Opportunamente l’Autore cita l’insegnamento solenne del Concilio Tridentino e del Vaticano I, che conferma la dottrina sulle due fonti della Fede. E ai teologi che insistono sul fatto che il Tridentino non cita espressamente le due fonti replica umoristicamente:
«Se il Tridentino non parla di due fonti, è solo perché confida nella capacità dei suoi destinatari d’arrivare a due sommando uno-più-uno e d’ammettere come incontestabile la decisione infallibile del Concilio circa l’esistenza di tradizioni non scritte, distinte in quanto tali dalla tradizione biblica».
Rassicurato e sostenuto infine da incontestabili argomenti, l’Autore può ignorare la temeraria opinione dei teologi che giudicano ereticale la qualunque flebile obiezione ai testi del Vaticano II e affrontare la delicata e tormentata questione della continuità della Costituzione dogmatica Dei Verbum con la Tradizione cattolica e, in special modo, con il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I.

Al proposito è citato il paragrafo 7 della Dei Verbum, in cui il messaggio cristiano
«vien subito allacciato a due distinti tipi di comunicazione: quello orale della predicazione stessa e quello scritto in cui la predicazione si travasa come annuncio della salvezza».
È dunque stabilito che alcuni punti della Dei Verbum sono in linea con l’insegnamento del Tridentino. L’Autore elenca la predicazione apostolica come contenuto della Tradizione, la sua durata fino alla fine dei tempi, il suo progresso relativo mediante un’ulteriore comprensione e spiegazione più profonda della rivelazione, la sua aperta professione di fede nell’azione dello Spirito Santo, la sua distinzione dal testo scritto.

Di seguito l’Autore rammenta che in Dei Verbum la fedeltà al Tridentino e al Vaticano I è indebolita e diluita:
«Circa il rapporto fra Tradizione e Sacra Scrittura le congiunge entrambe in base alla medesima sorgente divina dalla quale scaturiscono e le congiunge a tal punto da farne in certo qual modo una cosa sola». [vedi articolo Chiesa e post Concilio]
È evidente che una tale variazione esige un chiarimento. Si manifesta infatti l’ineludibile necessità di stabilire «se il Vaticano II debba considerarsi l’ultima effervescenza sul tronco sempre vivo della Tradizione oppure - come sostengono i bolognesi – l’inizio di un Cristianesimo nuovo e di una nuova coscienza della Chiesa».

L’Autore propone di orientare l’ermeneutica della continuità alla puntuale, solenne verifica della continuità e della rottura nei singoli documenti del Vaticano II e dei suoi pronunciamenti. Ultimamente la richiesta ha per oggetto
«un voltafaccia nei confronti di un postconcilio che ha fatto della tautologia l’unico criterio della sua presunta analisi critica: ha spiegato ripetendo alla lettera tutto quello che intendeva spiegare».
Benedetto XVI ha iniziato l’opera del voltafaccia (eretico secondo l’opinione del cabaret teologizzante) dimostrando che nella Gaudium et Spes si propone il dialogo con il mondo moderno ma non si formula una credibile definizione di esso. Il tabù del Concilio bolognese è infranto. La via indicata da monsignor Gherardini è finalmente percorribile.
Piero Vassallo

martedì 11 dicembre 2012

"numerosi blog curati da fedeli legati alla Messa tradizionale che stanno dando filo da torcere ai modernisti"

 

Marciamo divisi per colpire uniti


Negli ultimi anni sono sorti numerosi blog curati da fedeli legati alla Messa tradizionale che stanno dando filo da torcere ai modernisti di tutte le risme, i quali controllano varie riviste cartacee sulle quali diffondono gravi errori dogmatici e morali. Nessuno dica che esagero nel criticare la propaganda modernista. Questi stanno distruggendo la fede tra i fedeli; insegnano infatti che Gesù è risorto solo simbolicamente, l'Eucaristia è solo un simbolo del Corpo di Cristo, l'inferno non è eterno, le religioni sono tutte buone, non bisogna impedire il divorzio per legge, le convivenze prematrimoniali hanno un valore presacramentale, non c'è nulla di male se due omosessuali si sposano, anche le donne devono ricevere l'ordinazione sacerdotale ...e tanti altri pestiferi errori del genere.
 
La liturgia antica è la bandiera del Movimento Tradizionale, cioè il movimento spontaneo di fedeli di varie nazioni che si impegna nella difesa di tutto il patrimonio della Tradizione Cattolica dagli attacchi dei nemici della Chiesa.

Forse alcuni si domanderanno se non sia meglio unificare tutti i blog tradizionalisti per non disperdere le energie. Io non penso che fondere tutti i blog in uno solo sia un fatto positivo, sarebbe un po' come se (fatte le debite proporzioni) qualcuno volesse raggruppare tutti gli ordini religiosi in un unico ordine; sarebbe una cosa insensata poiché ogni ordine ha le proprie caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri. Che senso avrebbe unire un ordine contemplativo con un ordine ospedaliero? Oppure unire un ordine dedito all'insegnamento nelle scuole, con un altro dedito alla vita eremitica?

Tornando ai blog, io non ci vedo nulla di strano se ce ne sono vari che si occupano dello stesso argomento, in questo caso la Messa tridentina. Ognuno infatti ha le proprie caratteristiche peculiari. Alcuni danno maggiore spazio alle questioni propriamente liturgiche, altri hanno il proprio focus sulle nomine episcopali, sulle iniziative dei gruppi stabili locali, sui commenti e i retroscena scritti dai vari vaticanisti, ecc. Altri blog ancora, oltre alle news diffondono anche pensieri spirituali e ascetici.

Insomma ognuno ha il proprio posto di combattimento all'interno del Movimento Tradizionale, con un impatto devastante sull'armata rossa modernista che si vede ormai assediata da ogni lato, mentre i loro siti pieni di errori teologici e morali, raccolgono sempre meno l'interesse dei cattolici (soprattutto dei più giovani).

Il nemico principale da combattere è il modernismo, ossia la sintesi di tutte le eresie. Il fatto che esistono tanti siti tradizionalisti non è un problema per il proseguo di questa lotta campale, anzi può essere una risorsa. Marciamo divisi per colpire uniti.
 
 

lunedì 10 dicembre 2012

"È questa la strada che Benedetto XVI indica a tutti i fedeli, a cominciare dai vescovi: non il ritorno al Concilio Vaticano II, ma a Gesù Cristo, unica Via Verità e Vita" (R. de Mattei)


Il Prefetto della Congregazione

per la Dottrina della Fede

contro Benedetto XVI?

di Roberto de Mattei


 
 
In un sorprendente articolo apparso sull’“Osservatore Romano” del 29 novembre 2012, l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Fede, ha elevato il Concilio Vaticano II a unico e assoluto dogma dei nostri tempi. Basandosi su una lettura del tutto personale dell’ormai celebre discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, mons. Müller scrive a proposito dell’“l’ermeneutica della riforma nella continuità”: «Questa interpretazione è l’unica possibile secondo i principi della teologia cattolica, vale a dire considerando l’insieme indissolubile tra Sacra Scrittura, la completa e integrale Tradizione e il Magistero, la cui più alta espressione è il Concilio presieduto dal Successore di San Pietro come Capo della Chiesa visibile. Al di fuori di questa unica interpretazione ortodossa esiste purtroppo una interpretazione eretica, vale a dire l’ermeneutica della rottura, sia sul versante progressista, sia su quello tradizionalista. Entrambi sono accomunati dal rifiuto del Concilio; i progressisti nel volerlo lasciare dietro sé, come fosse solo una stagione da abbandonare per approdare a un’altra Chiesa; i tradizionalisti nel non volervi arrivare, quasi fosse l’inverno della Catholica».
Per suffragare la sua dogmatizzazione del Vaticano II, l’arcivescovo Müller, pretende stabilire un legame di assoluta continuità tra l’attuale posizione del Papa e quella che assunse don Joseph Ratrzinger, allora giovane teologo del cardinale Frings al Concilio Vaticano II. Mons. Müller tace sull’evoluzione teologica avuta, nel corso di cinquant’anni, dal cardinale Ratzinger, e che l’ignoranza di questo itinerario teologico sia deliberata lo dimostra un fatto altrettanto sorprendente: nell’opera omnia tedesca di Joseph Ratzinger, curata dallo stesso mons. Müller, manca l’importante indirizzo del cardinale Ratzinger alla Conferenza Episcopale cilena, il 13 luglio 1988, in cui l’allora Prefetto della Congregazione per la Fede definiva «limpido» «il fatto che non tutti i documenti del Concilio hanno la stessa autorità» e affermava: «Il Concilio Vaticano II non è stato trattato come una parte dell’intera tradizione vivente della Chiesa, ma come una fine della Tradizione, un nuovo inizio da zero. La verità è che questo particolare concilio non ha affatto definito alcun dogma e deliberatamente ha scelto di rimanere su un livello modesto, come concilio soltanto pastorale; ma molti lo trattano come se si fosse trasformato in una specie di superdogma che toglie l’importanza di tutto il resto. Questa idea è resa più forte dalle cose che ora stanno accadendo. Quello che precedentemente è stato considerato la più santa – la forma in cui la liturgia è stata trasmessa – appare improvvisamente come la più proibita di tutte le cose, l’unica cosa che può essere impunemente proibita. Non si sopporta che si critichino le decisioni che sono state prese dal Concilio; d’altra parte, se certuni mettono in dubbio le regole antiche, o persino le verità principali della fede – per esempio, la verginità corporale di Maria (n. d. r. non erano queste le tesi di mons. Müller?), la Resurrezione corporea di Gesù, l’immortalità dell’anima, ecc. – nessuno protesta, o soltanto lo fa con la più grande moderazione. Io stesso, quando ero professore, ho visto come lo stesso Vescovo che, prima del Concilio, aveva licenziato un insegnante che era realmente irreprensibile, per una certa crudezza nel discorso, non è stato in grado, dopo il Concilio, di allontanare un professore che ha negato apertamente verità della fede certe e fondamentali. Tutto questo conduce tantissima gente chiedersi se la Chiesa di oggi è realmente la stessa di ieri, o se l’hanno cambiata con qualcos’altro senza dirlo alla gente. La sola via nella quale il Vaticano II può essere reso plausibile è di presentarlo così come è: una parte dell’ininterrotta, dell’unica tradizione della Chiesa e della sua fede».
Nella celebrazione della Messa con cui l’11 ottobre ha aperto l’Anno della Fede, il Papa ha parlato del mondo contemporaneo come di un “deserto spirituale”. Benedetto XVI ha voluto che l’inaugurazione dell’Anno della Fede coincidesse con il 50° anniversario del Concilio Vaticano II e ha spiegato: «Se oggi la Chiesa propone un nuovo Anno della fede e la nuova evangelizzazione non è per onorare una ricorrenza, ma perché ce n’è bisogno, ancor più che 50 anni fa! E la risposta da dare a questo bisogno è la stessa voluta dai Papi e dai Padri del Concilio e contenuta nei suoi documenti (…) In questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, ai tempi del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza».
Il Papa ha ricordato quindi come Giovanni XXIII presentò il fine principale del Concilio in questi termini: «Questo massimamente riguarda il Concilio Ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace. (…) Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina (…) Per questo non occorreva un Concilio (…) È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo».
Il “proprium” del Concilio Vaticano II e del postconcilio, non fu dunque la “dogmaticità”, ma la “pastoralità”, perché spiega Benedetto XVI il Vaticano II, «non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento. I Padri conciliari – ha aggiunto – volevano ripresentare la fede in modo efficace; e se si aprirono con fiducia al dialogo con il mondo moderno è proprio perché erano sicuri della loro fede, della salda roccia su cui poggiavano. Invece, negli anni seguenti, molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del depositum fidei, che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità».
Se l’esigenza di trovare un nuovo linguaggio per il mondo nasceva, e non poteva che nascere, dal desiderio di dilatare la fede, il fine era pratico ed è dai risultati concreti che si deve giudicare se i mezzi per raggiungere il fine siano stati efficaci e adeguati. I fatti degli ultimi cinquant’anni ci dicono purtroppo che il Concilio non ottenne i risultati che si era prefisso, come ammetteva, nel 1985, lo stesso cardinale Josef Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel suo celebre Rapporto sulla Fede con queste parole:
«È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa Cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di Giovanni XXIII e di Paolo VI. (…) Ci si aspettava un balzo in avanti, e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto “spirito del Concilio” e in tal modo lo ha screditato». Ciò che avvenne non fu il “balzo innanzi” auspicato da Giovanni XXIII, ma una desertificazione spirituale, che ha le sue cause anche in uno “spirito del Concilio” che, come ha spiegato il Papa, è andato ben oltre la «lettera» dei documenti.
Il Concilio certamente non si riduce ai suoi documenti e gli storici hanno già iniziato un’opera di approfondimento e di analisi dell’evento, situato nel suo contesto. Gli stessi documenti del Concilio però non vanno dogmatizzati, ma esaminati con spirito critico e alla luce della Tradizione, come lo stesso Benedetto XVI ha fatto nella prefazione ad una raccolta dei suoi scritti conciliari pubblicata dall’editore tedesco Herder e anticipata dall’“Osservatore Romano” dell’11 ottobre 2012 (si veda un acuto commento che ne ha fatto sul sito conciliovaticanosecondo.it il prof. Paolo Pasqualucci – http://www.conciliovaticanosecondo.it/2012/11/18/sulle-recenti-critiche-di-benedetto-xvi-al-concilio-vaticano-ii/).
Invitando a una rilettura dei documenti del Vaticano II, il Papa afferma in questo testo che la costituzione conciliare Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo di oggi non ha chiarito ciò che era «essenziale e costitutivo dell’età moderna». «Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” – ha scritto Benedetto XVI – vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello “Schema XIII”. Sebbene la Costituzione pastorale [Gaudium et spes] esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale».
Il Concilio Vaticano II, non è un “pacchetto” da prendere o rifiutare in blocco. La Gaudium et Spes, ad esempio, appare oggi come un documento inattuale, pervaso dal mito ottocentesco e novecentesco del progresso e intriso di quello spirito mondano da cui la Chiesa fatica a liberarsi.
Rivolgendosi ai vescovi riuniti nell’aula del sinodo, l’8 ottobre 2012, Benedetto XVI ha detto ancora: «Il cristiano non deve essere tiepido. L’Apocalisse ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: che non dica di no, ma un sì molto tiepido. Questa tiepidezza proprio discredita il cristianesimo. La fede deve divenire in noi fiamma dell’amore, fiamma che realmente accende il mio essere, diventa grande passione del mio essere, e così accende il prossimo. Questo è il modo dell’evangelizzazione: “Accéndat ardor proximos”, che la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta».
Oggi i cristiani devono rispondere all’appello del Papa testimoniando in modo radicale l’integralità della loro fede. È questa la strada che Benedetto XVI indica a tutti i fedeli, a cominciare dai vescovi: non il ritorno al Concilio Vaticano II, ma a Gesù Cristo, unica Via Verità e Vita. (di Roberto de Mattei)
 
 
tratto da www.conciliovaticanosecondo.it/2012/12/05/il-prefetto-della-congregazione-per-la-dottrina-della-fede-contro-benedetto-xvi