giovedì 21 giugno 2012

Auxilium Christianorum ora pro nobis

Santa Messa solenne per la Festa della Madonna Ausiliatrice, Patrona dell'Australia

La festa di Maria Ausiliatrice è stata celebrata in Australia dal 1844, ma la sua storia risale all'inizio del 1800. Napoleone Bonaparte aveva imprigionato Pio VI, morto poi in carcere. Quando Papa Pio VII fu eletto, anche lui fu incarcerato dal Bonaparte, che lo tenne prigioniero a Fontainebleau. Il Santo Padre promise a Dio che se fosse ripristinata la Sede romana, avrebbe istituito una festa speciale in onore di Maria. Dodici mesi più tardi il Papa liberato decretò che la festa di Maria Ausiliatrice fosse celebrata il 24 maggio. Oggi è la patrona dell'Australia.

mercoledì 20 giugno 2012

"senza autorità, la libertà prima o poi diviene arbitrio, licenza, libertinaggio e legge del più forte. E oggi i forti sono i potentati di stampo laico-massonico-finanziario, i quali fanno il bello e il cattivo tempo non solo nell’economia" (Fabrizio Cannone)


Crisi del Vaticano o crisi della fede?
di Fabrizio Cannone
Nelle ultime settimane sembra essersi scatenata all’interno dei Sacri Palazzi, una lotta di potere, a base di fuga di documenti riservati, manovre di disinformazione e illeciti di vario genere. Le carte portate a conoscenza del pubblico per la verità non rivelano particolari malefatte di questo o quel prelato, né tanto meno del Santo Padre. Ciò che effettivamente desta stupore, angoscia e perplessità è la situazione di semi-anarchia che di fatto vige anche nella sponda più nobile del fiume Tevere.
Taluni, davanti alle sparate dei giornali laici, sempre avidi di gossip ecclesiastici, parlano della Curia Romana come il ricettacolo della malavita, il luogo in cui, per eccellenza, tutto è corrotto, e non a caso, ma per sua stessa natura. Costoro, a cui la storia, anche ecclesiastica, insegna ben poco, sembrano proporre un sottile ricatto alle legittime autorità della Chiesa: visto che voi, pur tra i tanti aggiornamenti post-conciliari, non volete cedere nel mantenimento della forma monarchica (e non democratico-elettiva) del Papato – né sul celibato, né sul sacerdozio femminile et similia – siete corresponsabili degli abusi, tipici delle vecchie Corti di potere di questo o quel sovrano.
Le cose, in verità, sono da vedersi in modo diametralmente opposto. E’ stata proprio la tendenza, già protestante, poi modernista, quindi post-conciliare, favorevole al potere dal basso, all’auto-governo e al rifiuto del diritto penale nella Chiesa ad aver fatto prosperare la presente crisi. Già scrivendo ai cattolici d’Irlanda, a proposito degli abusi del clero sui minori, Benedetto XVI segnalava il rapporto di collateralità e con-causalità tra la mentalità larga degli anni del Concilio e la mancata repressione dei delitti, la quale ha indubbiamente favorito e incoraggiato il male della pedofilia, e così tutti gli altri mali.
A forza di identificarsi col mondo, e molto meno col Cristo, la Chiesa ha iniziato ha pensarla a poco a poco come il mondo, il quale dalla Rivoluzione francese in qua, continuamente predica la “libertà” e parallelamente condanna “l’autorità”. Ma senza autorità, la libertà prima o poi diviene arbitrio, licenza, libertinaggio e legge del più forte. E oggi i forti sono i potentati di stampo laico-massonico-finanziario, i quali fanno il bello e il cattivo tempo non solo nell’economia, loro dominio di predilezione, ma ciò che è più grave nella politica e nella cultura. D’altra parte se i sacerdoti cattolici non si formano più alla scuola dell’Imitazione di Cristo e degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio, ma si (de)-formano seguendo i nuovi cantori teologici della modernità e dell’aggiornamento no limits, la ricerca della perfezione e del distacco dalla mediocrità (il cui nome è legione) diviene merce rara e perfino vista come inutile.
Se nella scelta dei Vescovi prevale, non la fedeltà al Vangelo sine glossa e la vita retta e pia, ma la capacità di rapportarsi dinamicamente al contesto culturale in perenne evoluzione, perché meravigliarsi se questi Pastori non vigilano il gregge loro affidato? E se, in ultima analisi, il Paradiso è dato gratis a tutti e ad ognuno, perché, meravigliarsi se nelle difficoltà della vita e nelle tentazioni il prelato di turno antepone i propri interessi economici e di carriera, a quelli della Chiesa? La fosca luce gettata, a partire dal Concilio, su ogni forma di “moralismo”, “integralismo”, “dogmatismo”, “autoritarismo” non ha forse comportato il prevalere, nelle cattedre, nelle Commissioni e nelle Curie, di una generazione di presuli, il più lontano possibile da ogni intransigenza? Ma senza intransigenza come vincere la carne, il peccato e il mondo?
Che il Pontefice e quei Vescovi che zelano la restaurazione della Chiesa, ora tutta in rovina, non solo non deflettano dalla sequela di Cristo, ma ribadiscano con più veemenza che la dottrina cattolica non è negoziabile, che il Vangelo non cambia, che l’autorità della Chiesa sarà sempre monarchica, e che è proprio la perdita, in moltissime anime, di queste certezze, la causa più profonda degli scandali attuali. Vi sarà una purificazione, certo, ma non nel compromesso col mondo moderno ammorbato da tanti virus, bensì nella lotta contro di esso e della sua mentalità atea, agnostica e anticristiana. Instaurare omnia in Christo! (Fabrizio Cannone)

tratto da: Corrispondenza romana

martedì 19 giugno 2012

Monsignor Bux: "Spero in una enciclica del Papa sulla Liturgia". Anche noi!

Colloquio con il teologo sulle valutazioni del Papa alla luce del Concilio e a cinque anni dal documento base sulla liturgia che parla delle incomplete applicazioni della riforma

di Giuseppe BrienzaRoma

"Il mio auspicio è che il Papa scriva un'enciclica sulla liturgia, proprio a partire dalla fede, e che i cardinali, i vescovi e i sacerdoti, lo assecondino di più su questi temi". Così ai microfoni di "Radio Vaticana" monsignor Nicola Bux, docente alla Facoltà teologica pugliese e consultore presso le Congregazioni per la dottrina della fede e per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti.
Vatican Insider ha intervistato Bux sul tema. Sono passati ormai quasi cinque anni dal Motu proprio “Summorum Pontificum” con il quale, il 7 luglio 2007, Benedetto XVI “liberalizzò” la celebrazione della Messa tridentina secondo l'uso del Messale promulgato dal beato Giovanni XXIII. All’art. 5 (§ 1) dello storico documento, infatti, il Papa stabilì che, nelle parrocchie in cui esista stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, senza istanze al vescovo o ad altre autorità come accadeva prima, «il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962».
Proseguendo nella sua opera di correzione di un’interpretazione erronea del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo la da lui stesso deprecata «ermeneutica della discontinuità e della rottura», che ha letto il Concilio come ripudio di tutto il Magistero precedente, Benedetto XVI ha tratto anche di recente occasione, il 7 giugno scorso in occasione della solennità del Corpus Domini, per pronunciare dalla sua “cattedra” di san Giovanni in Laterano, un’importante omelia sull’Eucarestia, tutta intesa a denunciare «visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato».
Il Papa ha affermato che solo facendo precedere, accompagnare e seguire la celebrazione della Messa da un atteggiamento interiore di fede e di adorazione, «l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre».
Protagonista di una tavola rotonda dedicata proprio al tema «Messa antica, Messa “nuova”: stesso spirito ma esigenza di un approfondimento della riforma liturgica», che sarà ospitata a Frascati il 16 giugno prossimo dal vescovo monsignor Raffaello Martinelli nell’ambito della I Giornata regionale di formazione cattolica organizzata dal “mensile di informazione e formazione apologeticail Timone ne abbiamo parlato con un esperto di liturgia come don Nicola Bux, consultore in Vaticano delle congregazioni per la Dottrina della fede, dei santi e dell’ufficio delle celebrazioni pontificie e già perito al Sinodo sull’eucaristia del 2005.
Molti parlano ma pochi hanno letto i testi del Concilio Ecumenico Vaticano II sulla liturgia, che cosa statuiva in particolare la costituzione “Sacrosanctum Concilium”?
E' tutto scritto in questa prima “costituzione” conciliare – quindi un documento statutario, 'giuridico' del 4 dicembre 1963 – che, sulla scia dell'enciclica Mediator Dei di Pio XII, del 1947 (oltre quindici anni prima) descrive la natura della “sacra” - ossia divina – liturgia, cioè, dal greco, opera pubblica, della Chiesa. Pertanto, nessuno, anche se sacerdote, può aggiungere,togliere o mutare alcunché (cfr. n. 22 c). E' esattamente quello che non è stato osservato.
D. Non mi pare neanche tanto osservata la raccomandazione del Vaticano II a proposito dello studio e della promozione della lingua ordinaria della Chiesa, cioè il latino, nella formazione dei sacerdoti e nella liturgia delle chiese di rito romano…
La Sacrosanctum Concilium, sulla scia - diremmo oggi in continuità – della costituzione apostolica emanata dal beato Giovanni XXIII “sullo studio e l'uso del latino” (Veterum Sapientia, 22 febbraio 1962) chiedeva anche questo. Prova ne è l'esortazione apostolica Sacramentum caritatis dopo il sinodo del 2005: rilancia il latino come lingua della Chiesa universale. Del resto, perché dovremmo rassegnarci all'inglese? Abbiamo bisogno o no della lingua comune noi cattolici almeno nella liturgia? E non toglie certo spazio quelle nazionali.
Che cosa risponderebbe a chi ancora oggi sostiene che, quella che il Papa ha definito la “forma straordinaria della Liturgia della Chiesa” (Summorum Pontificum, art. 5, § 3.), sia per la lingua che per i gesti, secondo alcuni eccessivamente enfatici e ormai distanti dal 'sentire odierno' - non agevolerebbe la comprensione del culto divino da parte del popolo né la sua partecipazione attiva?
Che cos'è il 'sentire odierno' ? L'uomo per parlare a Dio deve servirsi della Sua Parola e non della propria: noi preghiamo infatti con le parole dei Salmi, vecchi di tremila anni,e della liturgia che, unita al culto del tempio e sinagogale, ne fa altrettanti. La 'partecipazione' consiste innanzitutto nel sentirsi parte del corpo mistico di Gesù, e solo secondariamente nel 'partecipare' con gesti e parole. La liturgia è mistica e non si comprenderà mai pienamente in questo mondo. Questo è anche il motivo della 'durata' della Messa nella forma straordinaria, come la chiama Benedetto XVI, che ancor prima che tridentina è gregoriana ed apostolica. La Messa in forma ordinaria, può consolidarsi davvero, solo se si riscopre il nesso con l'antico rito e se ne fa arricchire, come auspica il Motu proprio Summorum Pontificum e l'Istruzione Universae Ecclesiae.
Ci spieghi la scelta del provocatorio titolo di uno dei suoi ultimi libri, che si avvale anche di un contributo di Vittorio Messori: Come andare a Messa e non perdere la fede (Piemme 2010).
E' un titolo suggerito dall'editore, che ho accettato in ragione del “crollo” che ha conosciuto la liturgia negli ultimi decenni causando in buona parte la “crisi” della Chiesa – parole di Benedetto XVI – che invece di parlare all'uomo di Dio, ha parlato dell'uomo. Di qui la noia e l'abbandono della Messa – e della Chiesa – da parte di tanti. Si rimedia restaurando “l'affresco” liturgico dalle deformazioni al limite del sopportabile, mediante la rinascita del sacro nei cuori, come ha appena ricordato nell'Omelia del Corpus Domini Benedetto XVI. Dio ha diritto di essere adorato come egli ha stabilito. Se ne avvantaggerà la Chiesa e la società, che non diventerà più giusta se non riscoprirà il “giusto” culto (in greco: ortho-doxia) al Signore.
Sono in corso i colloqui tra Santa Sede e Fraternità Sacerdotale San Pio X per ricomporre lo scisma consumato nel 1988. Secondo alcuni osservatori, la conclusione sarebbe solo questione di tempo. Anche su questo versante, però, non mancano le voci critiche che temono un 'passo indietro' da parte della Chiesa e la riproposizione di forme pastorali, dottrinali e catechetiche ormai superate. Che cosa c'è da augurarsi?
Solo e sempre la riconciliazione dei cristiani nella verità e nell'amore. Non ha detto Gesù: che siano uno, affinché il mondo creda? Nessuno è di troppo nella Chiesa, che è 'una e multiforme'.

cum amore ac timore.


“ Come il lattante in braccio a chi lo nutre ”
di Mons. Athanasius Schneider
Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucaristia, ha lasciato alla Chiesa un'ammonizione ardente che suona come un vero testamento: « Dobbiamo badare con ogni premura a non attenuare alcuna dimensione o esigenza dell'Eucaristia. Così ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono (...) non c'è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero! » (n. 61). La consapevolezza della grandezza del mistero eucaristico si mostra in modo particolare nella maniera con cui è distribuito e ricevuto il Corpo del Signore.
Consapevole della grandezza del momento della sacra Comunione, la Chiesa nella sua bimillenaria tradizione ha cercato di trovare un'espressione rituale che potesse testimoniare nel modo più perfetto possibile la sua fede, il suo amore e il suo rispetto. Questo si è verificato, quando nella scia d'uno sviluppo organico, a partire almeno dal sesto secolo, la Chiesa cominciò ad adottare la modalità di distribuire le sacre specie eucaristiche direttamente in bocca. Così testimoniano: la biografia di Papa Gregorio Magno e un'indicazione dello stesso Gregorio relativa a Papa Agapito (Dialoghi, III).
Il sinodo di Cordoba dell'anno 839 condannò la setta dei cosiddetti "casiani" a causa del loro rifiuto di ricevere la sacra Comunione direttamente in bocca.
Poi il sinodo di Rouen nell'anno 878 ribadì la norma vigente della distribuzione del Corpo del Signore sulla lingua, minacciando i ministri sacri della sospensione dal loro ufficio, se avessero distribuito ai laici la sacra Comunione sulla mano.
In Occidente, il gesto di prostrarsi e inginocchiarsi prima di ricevere il corpo del Signore si osserva negli ambienti monastici già a partire dal sesto secolo, per esempio nei monasteri di san Colombano. Più tardi - nel decimo e nell'undicesimo secolo - questo gesto si è diffuso maggiormente.
Alla fine dell'età patristica la prassi di ricevere la sacra Comunione direttamente in bocca diventa quindi una prassi ormai diffusa e quasi universale.
Questo sviluppo organico si può considerare come un frutto della spiritualità e della devozione eucaristica del tempo dei Padri della Chiesa. Già nel primo millennio, a causa del carattere altamente sacro del Pane eucaristico, la Chiesa sia in Occidente sia in Oriente in un ammirevole consenso e quasi istintivamente ha percepito l'urgenza di distribuire la sacra Comunione ai laici solamente in bocca.
Il liturgista Josef Andreas Jungmann spiegava che, a causa della distribuzione della Comunione direttamente in bocca, si eliminarono varie preoccupazioni: quella che i fedeli debbano avere pulite le mani, la preoccupazione ancora più grave che nessun frammento del Pane consacrato si perda, la necessità di purificare la palma della mano dopo la ricezione del sacramento. La tovaglia e, più tardi, il piattino per la Comunione saranno l'espressione di accresciuta attenzione riguardo al sacramento eucaristico.
Papa Giovanni Paolo II così insegna nell'Ecclesia de Eucaristia: « Sull'onda di questo elevato senso del mistero si comprende come la fede della Chiesa nel mistero eucaristico si sia espressa nella storia non solo attraverso l'istanza di un interiore atteggiamento di devozione, ma anche attraverso una serie di espressioni esterne » (n.49).
L'atteggiamento più consono a questo dono è l'atteggiamento della ricettività, l'atteggiamento dell'umiltà del centurione, l'atteggiamento di lasciarsi nutrire, appunto l'atteggiamento del bambino. La parola di Cristo, che ci invita ad accogliere il Regno di Dio come un bambino (Cfr. Luca 18,17), può trovare la sua illustrazione in modo assai suggestivo e bello anche nel gesto di ricevere il Pane eucaristico direttamente in bocca ed in ginocchio.
Giovanni Paolo II metteva in evidenza la necessità di espressioni esterne di rispetto verso il pane eucaristico: « Se la logica del ‘convito' ispira familiarità, la Chiesa non ha mai ceduto alla tentazione di banalizzare questa ‘dimestichezza' col suo Sposo dimenticando che Egli è anche il suo Signore (...) Il convito eucaristico è davvero convito ‘sacro', in cui la semplicità dei segni nasconde l'abisso della santità di Dio. Il pane che è spezzato sui nostri altari (...) è pane degli angeli, al quale non ci si può accostare che con l'umiltà del centurione del Vangelo » (n.48).
L'atteggiamento del bambino è il più vero e profondo atteggiamento di un cristiano davanti al suo Salvatore, che lo nutre con il suo corpo e il suo sangue, secondo le seguenti commoventi espressioni di Clemente di Alessandria: « Il Lògos è tutto per il bambino: padre, madre, pedagogo, nutritore. ‘Mangiate, dice Lui, la Mia carne e bevete il Mio sangue!' (...) O incredibile mistero! ». (Pedagogus, I, 42,3).
Un'altra considerazione biblica è fornita dal racconto della vocazione del profeta Ezechiele. Egli ricevette simbolicamente la parola di Dio direttamente in bocca: « Apri la bocca e mangia ciò che io ti do". Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo (...) Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele » (Ezechiele, 2, 8-9; 3, 2-3).
Nella sacra Comunione riceviamo la Parola, fatta carne, fatta cibo per noi piccoli, per noi bambini. Quindi, quando ci accostiamo alla sacra Comunione, possiamo ricordarci di quel gesto del profeta Ezechiele. Cristo ci nutre veramente con il Suo corpo e sangue nella sacra Comunione e ciò è paragonato nell'età patristica all'allattamento materno, come mostrano queste parole di san Giovanni Crisostomo nelle sue omelie sul Vangelo di Giovanni: « Con questo mistero eucaristico Cristo si unisce ad ogni fedele, e quelli che ha generato li nutre da sé e non li affida ad un altro. Non vedete con quanto slancio i neonati accostano le loro labbra al petto della madre? Ebbene, anche noi accostiamoci con tale ardore a questa sacra mensa e al petto di questa bevanda spirituale; anzi, con un ardore maggiore di quello dei lattanti! » (82,5).
Il gesto più tipico dell'adorazione è quello biblico dell'inginocchiarsi, come lo hanno recepito e praticato i primi cristiani. Per Tertulliano, che visse tra il secondo e il terzo secolo, la più alta forma dell'orazione è l'atto dell'adorazione di Dio, che si deve manifestare anche nel gesto della genuflessione: "Pregano tutti gli angeli, prega ogni creatura, pregano il bestiame e le belve e piegano le ginocchia" (De Oratione, 29). Sant'Agostino avvertiva che noi pecchiamo, se non adoriamo il Corpo eucaristico del Signore, quando lo riceviamo: « Nessuno mangi quella carne, se prima non l'ha adorata. Pecchiamo se non l'adoriamo » (Enarrationes in Psalmos, 98, 9).
In un antico Ordo communionis della tradizione liturgica della Chiesa copta fu stabilito: « Tutti si prostrino a terra, piccoli e grandi e così cominci la distribuzione della Comunione ».
Secondo le Catechesi mistagogiche, attribuite a san Cirillo di Gerusalemme, il fedele deve ricevere la Comunione con un gesto di adorazione e venerazione: « Non stendere le mani, ma in un gesto di adorazione e venerazione accostati al calice del sangue di Cristo » (5,22).
San Giovanni Crisostomo nelle omelie sulla lettera ai Corinzi esorta coloro che si accostano al corpo eucaristico del Signore a imitare i Magi dell'Oriente nello spirito e nel gesto dell'adorazione: « Accostiamoci dunque a Lui con fervore e con ardente carità. Questo corpo, benché si trovasse in una mangiatoia, lo adorano gli stessi Magi. Ora, quegli uomini, senza conoscenza della religione ed essendo barbari, adorano il Signore con grande timore e tremore. Ebbene, noi che siamo cittadini dei cieli, cerchiamo almeno di imitare questi barbari! Tu, a differenza dei Magi, non vedi semplicemente questo corpo, ma ne hai conosciuto tutta la sua forza e tutta la sua potenza salvifica. Sproniamo dunque noi stessi, tremiamo e mostriamo una pietà maggiore di quella dei Magi » (24,5).
Sullo stretto legame tra l'adorazione e la sacra Comunione Papa Benedetto XVI nell'esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis ha scritto: "Ricevere l'Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo" (n.66). Già da cardinale, Ratzinger sottolineava questo aspetto: « Cibarsene [dell'Eucaristia] (...) è un evento spirituale, che investe tutta la realtà umana. ‘Cibarsi' di essa significa adorarla. Per questo l'adorazione (...) neppure si pone accanto alla Comunione: la Comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall'adorazione » (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001, p.86).
Nel libro dell'Apocalisse, il libro della liturgia celeste, il gesto della prostrazione dei ventiquattro anziani davanti all'Agnello può essere il modello e il criterio di come la Chiesa in terra debba trattare l'Agnello di Dio quando i fedeli si avvicinano a lui nel sacramento dell'Eucaristia.
I Padri della Chiesa mostrarono una viva preoccupazione affinché non si perda nemmeno un minimo frammento del Pane eucaristico, come esortava san Cirillo di Gerusalemme in maniera suggestiva: « Sii vigilante affinché tu non perda niente del corpo del Signore. Se tu lasciassi cadere qualcosa, devi considerarlo come se tu avessi tagliato uno dei membri del tuo proprio corpo. Dimmi, ti prego, se qualcuno ti desse granelli d'oro, tu per caso non li terresti con la massima cautela e diligenza, intento a non perdere niente? Non dovresti tu curare con cautela e vigilanza ancora maggiore, affinché niente e nemmeno una briciola del corpo del Signore possa cadere a terra, perché è di gran lunga più prezioso dell'oro e delle gemme? » (Catechesi mistagogiche, 5,21).
Già Tertulliano testimoniava l'angoscia e il dolore della Chiesa perché non si perda nessun frammento: « Soffriamo angoscia perché nulla dal calice o del pane cada a terra » (De Corona, 3).
Sant'Efrem - quarto secolo - così insegnava: « Gesù ha riempito il pane di se stesso e di Spirito e lo ha chiamato il Suo corpo vivo. Ciò che adesso vi ho dato, diceva Gesù, non lo considerate pane, nemmeno calpestate i suoi frammenti. Il minimo frammento di questo pane può santificare milioni di uomini e basta per dare la vita a tutti quelli che lo mangiano » (Sermones in hebdomada sancta, 4,4).
Nella tradizione liturgica della Chiesa copta si trova la seguente avvertenza: « Non c'è nessuna differenza tra le parti maggiori o minori dell'Eucaristia, persino quelle minime che non si possono percepire con l'acutezza della vista; esse meritano la stessa venerazione e possiedono la stessa dignità come il pane intero » (Heinrich Denzinger, Ritus Orientalium, Wurzuburg, 1863, I, p.405).
In alcune liturgie orientali il Pane consacrato è designato con il nome "perla". Così nelle Collectiones canonum Copticae si dice: « Dio non voglia! Che nulla delle perle o dei frammenti consacrati aderisca alle dita o cada a terra! ».
L'estrema vigilanza a cura della Chiesa dei primi secoli affinché non si perdesse nessun frammento del Pane eucaristico era un fenomeno universalmente diffuso: Roma (cfr Ippolito, Traditio apostolica, 32), Africa del nord (cfr Tertulliano, De Corona, 3, 4), Gallia (cfr Cesario di Arles, Sermo, 78, 2), Egitto (cfr Girolamo, In Psalmos, 147, 14), Siria (Efrem, In hebdomada sanctam, 4, 4).
Nella Chiesa antica gli uomini prima di ricevere il pane consacrato dovevano lavarsi la palma della mano. Inoltre il fedele s'inclinava profondamente ricevendo il Corpo del Signore con la bocca direttamente dalla palma della mano destra e non dalla mano sinistra. La palma della mano serviva per così dire come patena o come corporale - specialmente per le donne. Così si legge in un sermone di Cesario di Arles (470-542): « Tutti gli uomini che desiderano comunicarsi, devono lavare le proprie mani. E tutte le donne devono portare un lino, sul quale ricevono il corpo di Cristo ». (Sermo, 227, 5).
Di solito la palma della mano veniva purificata ossia lavata dopo la ricezione del pane eucaristico come è finora norma nella Comunione del clero nel rito bizantino.
Nei vecchi canoni della Chiesa caldea, persino al sacerdote celebrante era vietato di mettere il pane eucaristico nella propria bocca con le dita. Invece doveva prendere il corpo del Signore dalla palma della sua mano; come motivo era indicato che si trattava non di cibo comune, ma di cibo celeste: « Al sacerdote - si legge nel Canone di Ioannis Bar-Agbari - si ordina di ricevere la particella del pane consacrato direttamente dalla palma della sua mano. Non gli sia permesso di metterla con la mano nella bocca, ma deve prenderla con la bocca, poiché si tratta di un cibo celeste ».
Nell'antica Chiesa siriaca il rito della distribuzione della Comunione era comparato con la scena della purificazione del profeta Isaia da parte di uno dei serafini.
In uno dei suoi sermoni sant'Efrem lascia parlare Cristo con queste espressioni: « Il carbone portato santificò le labbra di Isaia. Sono Io, che, portato adesso a voi per mezzo del pane, vi ho santificato. Le molle che ha visto il profeta e con le quali fu preso il carbone dall'altare, erano la figura di Me nel grande sacramento. Isaia ha visto Me, così come voi vedete Me adesso stendendo la Mia mano destra e portando alle vostre bocche il pane vivo. Le molle sono la Mia mano destra. Io faccio le veci del serafino. Il carbone è il Mio corpo. Tutti voi siete Isaia » (Sermones in hebdomada sancta, 4, 5).

Nella liturgia di san Giacomo, prima di distribuire ai fedeli la sacra Comunione, il sacerdote recita questa preghiera: « il Signore ci benedica e ci renda degni di prendere con mani immacolate il carbone acceso, mettendolo nella bocca dei fedeli ».
Se ogni celebrazione liturgica è azione sacra per eccellenza (cfr Sacrosanctum concilium, n.7), lo deve essere soprattutto il rito della sacra Comunione. Giovanni Paolo II insisteva sul fatto che, dinanzi alla cultura secolarizzata del tempo moderno, la Chiesa di oggi debba sentire uno speciale dovere riguardo alla sacralità dell'Eucaristia: « Bisogna ricordarlo sempre, e forse soprattutto nel nostro tempo, nel quale osserviamo una tendenza a cancellare la distinzione tra sacrum e profanum, data la generale diffusa tendenza - almeno in certi luoghi - alla dissacrazione di ogni cosa. In tale realtà la Chiesa ha il particolare dovere di assicurare e corroborare il sacrum dell'Eucaristia. Nella nostra società pluralistica, e spesso anche deliberatamente secolarizzata, la viva fede della comunità cristiana garantisce a questo sacrum il diritto di cittadinanza ». (Dominicae cenae, 8).

In base all'esperienza fatta nei primi secoli, alla crescita organica nella comprensione teologica del mistero eucaristico e al conseguente sviluppo rituale, il modo di distribuire la Comunione sulla mano fu limitato alla fine dell'età patristica ad un gruppo qualificato, cioè al clero, come è finora nel caso dei riti orientali. Ai laici si cominciò pertanto a distribuire il pane eucaristico - intinto nel vino consacrato nei Riti orientali - direttamente in bocca.
Sulla mano si distribuisce nei Riti orientali soltanto il pane non consacrato, il ciosiddetto antidoron. Così si mostra in maniera evidente anche la differenza tra Pane eucaristico e pane semplicemente benedetto.
La più frequente ammonizione dei Padri della Chiesa sull'atteggiamento da avere durante la sacra Comunione suonava così: cum amore ac timore.

Lo spirito autentico della devozione eucaristica dei Padri della Chiesa si sviluppò organicamente alla fine dell'antichità in tutta la Chiesa - Oriente e Occidente - nei corrispondenti gesti del modo di ricevere la sacra Comunione in bocca con la precedente prostrazione a terra - Oriente - o inginocchiati - Occidente. Non corrisponderebbe maggiormente all'intima realtà e verità del pane consacrato, se anche oggi il fedele per riceverlo si prostrasse a terra aprendo la bocca come il profeta che riceveva la parola di Dio (cfr Ezechiele, 2) e lasciandosi nutrire come un bambino - poiché la Comunione è un allattamento spirituale? Un tale gesto sarebbe anche un impressionante segno della professione di fede nella presenza reale di Dio in mezzo ai fedeli. Se sopraggiungesse qualche non credente e osservasse un tale atto di adorazione, forse anche lui « si prostrerebbe a terra e adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è tra voi » (1 Corinzi, 14, 24-25).
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[Fonte: L'Osservatore Romano del 9 gennaio 2008]

lunedì 18 giugno 2012

 Il dialogo ad ogni costo.
Chiesa dialogante e non più docente.

Parlare di dialogo significa occuparsi di quella che Romano Amerio in Iota unum definisce “la più grande variazione della mentalità della Chiesa post conciliare paragonabile a quella seguita al vocabolo libertà nel 1800”[1] , assurgendo a nuova categoria universale della mentalità progressista e diventando una delle realtà centrali del cattolicesimo contemporaneo.

Quando si parla di dialogo ci si riferisce al dialogo ecumenico, al dialogo tra Chiesa e mondo, al dialogo ecclesiale assegnando inopinatamente struttura dialogica alla teologia, alla pedagogia, alla catechesi, alla SS. Trinità, alla storia della salvezza, alla scuola, alla famiglia, al sacerdozio, ai sacramenti, alla redenzione, e a quant’altro nel corso dei secoli appartenesse agli ambiti di interesse ed azione ecclesiali.

In ogni campo « Il passaggio dal discorso tetico, che fu proprio della religione, al discorso ipotetico e problematico è palese sin nella mutazione del titolo dei libri, che un tempo insegnavano e oggi ricercano. Ai libri che andavano come Institutiones o Manuali o Trattati di filosofia o di teologia o di qualunque altra scienza subentrano oggi i Problemi di filosofia, Problemi di teologia, e la manualistica, proprio per il suo pregio tetico[2] e apodittico, viene aborrita e disprezzata ».[3]
 
Già nell'enciclica Ecclesiam suam del 1964, la cui intera parte III è dedicata al dialogo - Paolo VI riduceva ad equazione il dovere che appartiene alla Chiesa di evangelizzare il mondo rispetto al suo dovere di dialogare col mondo. (67. La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio).

Afferma proprio in riferimento a ciò Romano Amerio:
« Ma non si può non avvertire che l’equazione non trova appoggio né nella Scrittura né nel lessico. Nella Scrittura il vocabolo dialogus non si trova mai e l’equivalente latino colloquium è usato solo nel senso di incontro di capi e in quello di conversazione e mai in quello moderno di incontro di persone. Tre volte si trova colloquio nel Nuovo Testamento nel senso di disputa. L’evangelizzazione d’altronde è un annuncio e non una disputa. Nei Vangeli l’evangelizzare comandato agli Apostoli è immediatamente identificato con l’insegnare. Alla dottrina infatti e non alla disputa si riferisce il mandato apostolico e d’altronde il vocabolo stesso eu-angelion=buon annuncio dice qualche cosa che è data da comunicare e non di qualcosa che è gettata alla disputa. Certo negli Atti Pietro e Paolo disputano nelle sinagoghe, ma non è il dialogo nel senso moderno, cioè il dialogo di ricerca movente da uno stato di ignoranza confessa, ma il dialogo di confutazione e di impugnazione dell’errore ».[4]
Cristo Signore parlava con autorità: « Erat docens eos sicut potestatem habens » (Matth., 7, 29), e così le parole di evangelizzazione degli Apostoli devono avere autorità intrinseca che non può esser data dal dialogo. Anzi il parlare tetico di Cristo è contrapposto al parlare dialogico degli Scribi e dei Farisei. Altrimenti si dimentica che « la parola della Chiesa non è parola d’uomo, la quale è sempre controvertibile, ma è parola rivelata, destinata all’accettazione e non alla controversia ».[5] Poiché nella Scrittura il metodo dell’evangelizzazione è l’insegnamento e non il dialogo, la missione di Cristo e dei suoi Apostoli è sigillata dal verbo nell’imperativo μαθητεύσατε -matheteusate: fate discepoli tutti i popoli, identificando l’opera degli Apostoli nel portare i popoli alla condizione di ascoltatori e discepoli e considerando μαθητεύσατε (con la connotazione di “insegnare”) il grado previo di διδάσκειν -didáskein (nel senso di imparare).

E tuttavia l’Ecclesiam suam, dopo aver posto l’equazione tra evangelizzare e dialogare, pone invece disequazione tra evangelizzare la verità e il condannare l’errore e identifica condanna e costrizione. Ritorna il motivo dell’orazione inaugurale del concilio: « Anche la nostra missione » dice l’enciclica « è annuncio di verità indiscutibili e di salute necessaria; non si presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell’umana educazione ».

Oltre che il fondamento biblico, manca al dialogo il fondamento gnoseologico, perché la natura del dialogo contraddice alle condizioni del discorso di fede.

Il dialogo attuale si caratterizza, rispetto a quello tradizionale, che aveva per fine la confutazione dell’errore e la conversione dell’interlocutore, dal rifuggire dalla polemica ritenuta non caritatevole, dimenticando che il concetto stesso di polemica è indissolubile dalla contrapposizione tra il vero e il falso. Da qui nasce l’esclusione dell’apologetica, della pretesa di conversione dell’interlocutore e l’asserto che il dialogo «è sempre uno scambio positivo».

Tuttavia così si elimina la possibilità – reale, non ipotetica – del dialogo pervertitore o di quello improduttivo, cadendo in un superficiale ottimismo. Un elemento da non sottovalutare, invece, è che la possibilità di dialogare è correlata alla scienza e alla competenza che si ha dell'oggetto del dialogo. Ne consegue che, in tema di fede, esso non è possibile per tutti. Viceversa oggi sembra che il dialogo dipenda dalla libertà o dalla dignità dell’anima.
« Il titolo a disputare dipende dalla cognizione e non dalla generale destinazione dell’uomo alla verità. Sulle cose ginniche, insegnava Socrate, si ha da ascoltare il perito di ginnastica, e su cavalli il perito di cose cavalline, e su ferite e morbi il perito di medicina, e sulle cose della città il perito di politica. La perizia poi è effetto della fatica e dello studio, della riflessione non corsiva ed estemporanea, ma metodica e assidua. Nel dialogo contemporaneo invece si suppone che ogni uomo, perché razionale, sia atto a dialogare con tutti e sopra tutte le cose. Si richiede perciò che il vivere della comunità civile e il vivere della comunità ecclesiale siano ordinati per tal modo che tutti partecipino non, come vuole il sistema cattolico, recando ciascuno la propria scienza, bensì la propria opinione, e non adempiendo la parte che gli spetta, ma pronunciando su tutto. Ed è singolare che questo titolo a disputare sia esteso all’universale proprio nel momento in cui il titolo autentico, che è la scienza, si indebolisce e scarseggia nello stesso ceto docente della Chiesa ».[6]
Inoltre del dialogo si tende a sottolineare la caratteristica comune della ricerca. La ricerca, per il cristiano che è già nella Terra Promessa costituita dal Suo Signore, che è anche l’approdo di chi ha trovato la “perla preziosa” e il “tesoro nel campo”, assume piuttosto l’aspetto del dialogo con Dio, che diventa cammino, approfondimento, sempre ulteriore radicamento e conoscenza e intimità con Colui che è sì infinitamente Altro, ma è anche più intimo a me di me stesso. (Sant’Agostino, Confessioni, 3, 6, 11).

Non ci si può quindi sottrarre alla conclusione che il dialogo postconciliare non è propriamente il dialogo cattolico, perché la Chiesa dialogante non più docente:
  • si pone come se non possedesse, ma cercasse la verità o come se, dialogando, potesse prescindere dal possesso (non strumentale ma ontologico) e quindi dall’affermazione della verità, attraverso l’insegnamento oltre che con la testimonianza. Chiesa “strumento di salvezza” non soltanto “segno”.
  • non riconosce il primato della verità rivelata, non distinguendo più la diversa scala di valori tra natura e Rivelazione
  • mette sullo stesso piano i dialoganti; il che diventa un peccato contro la fede perché prescinde dal primato che ha la fede divina su qualunque artificio o strumento dialettico.
  • non considera che non tutte le posizioni filosofiche sono indefinitamente disputabili, ignorando i punti di contraddizione che toccano i principi, che troncano il dialogo e lasciano solo la possibilità della confutazione.
  • dà per presupposto che il dialogo sia sempre fruttuoso come se non esistesse « un dialogo corruttore che spianta la verità e impianta l’errore, e come se non si dovesse, nel caso, rigettare l’errore prima professato ».[7]
Il dialogo di convergenza dei soggetti dialoganti verso una verità più alta e più universale non appartiene alla Chiesa cattolica, perché non la riguarda un processo che conosca l’estemporaneità di nuovi percorsi sulle tracce della Verità, che essa già ha ricevuto, “è venuta …”[8], che custodisce, che la anima e di cui è portatrice fino alla fine dei tempi. Ciò che le appartiene e le compete è l’operazione della carità che intenzionalmente comunica una verità posseduta per grazia, con lo scopo di trarre non a sé ma alla verità.

Esiste una evidente asimmetria tra la missione Apostolica e il “dialogo reciproco”: « Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra Chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro ». Si arriva perfino ad affermare : « Rivolgiamo anche il nostro pensiero a tutti coloro che credono in Dio e che conservano nelle loro tradizioni preziosi elementi religiosi ed umani, augurandoci che un dialogo fiducioso possa condurre tutti noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e a portarli a compimento con alacrità. [...] Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati a una sola e identica vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace ».[10]

Se è comprensibile il richiamo alla responsabilità per il bene comune nell'ambito delle prassi, purtroppo la storia millenaria ci insegna come ogni prassi, senza Redenzione, sia destinata a degenerare...

È terribile come viene passato sotto silenzio e alle fine livellato il discrimine tra cristiani e non-credenti o diversamente-credenti, che è la filiazione divina, appartenente all'ordine soprannaturale: una Chiesa che non è più strumento di salvezza, ma solo “segno” o “testimone”. Ma queste non erano categorie appartenenti non all'universalismo cattolico, ma all'universalismo del Popolo ebraico? E non sono forse superate e inserite in un orizzonte escatologico in Cristo Signore?

Altrettanto inquietante alla luce degli attuali sviluppi politico-economico-finanziari su scala globale l’asserto: « Per instaurare un vero ordine economico mondiale, bisognerà rinunciare ai benefici esagerati, alle ambizioni nazionali, alla bramosia di dominazione politica, ai calcoli di natura militaristica e alle manovre tendenti a propagare e imporre ideologie. Vari sono i sistemi economici e sociali proposti; è desiderabile che gli esperti possano trovare in essi un fondamento comune per un sano commercio mondiale. Ciò sarà più facile se ciascuno, rinunciando ai propri pregiudizi, si dispone di buon grado a condurre un sincero dialogo ».[11]

Se l'economia e la finanza sono i nuovi cardini su cui si dipana la storia attuale, questo non meglio identificato “sincero dialogo” appare il nuovo idolo...

Ecco il germe dei riferimenti (vedi ripetuti Incontri di Assisi - e anche) ad una “pace” genericamente scaturente dalle buone volontà umane e non a quella accolta vissuta e diffusa dalla Persona dell'Unico Principe della Pace, nostro Signore Gesù Cristo. Discorsi generici come questo non servono a nessuno e, alla fine, traggono in inganno perché arrivano ad accogliere anche illusorie e aleatorie nonché ambigue speranze di pace, che senza il Signore nessuno è in grado di raggiungere, perché qualunque cosa possa scaturire unicamente da una iniziale “buona volontà” umana, se non fecondata da Cristo, prima o poi è destinata a degenerare. Si tratta della grande fiducia nell'uomo di Paolo VI: la religione dell'uomo. Discorso ampiamente sviluppato nel capitolo dedicato all' “antropocentrismo”. [in parte sviluppato qui] - [vedi anche]

Non possiamo continuare a confondere con la nostra Fede che è in una Persona, il Signore Gesù, l'umanesimo ateo, o quello diversamente credente. Esso, pur se pieno di buone intenzioni, resta ancorato nell'orizzonte materiale, a differenza di quello cristiano, teandrico, che porta in sé la Vita del Redentore!
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1. Romano Amerio, Iota Unum, Lindau 2009, p.323-333
2. “tetico-ponente” è la struttura di posizione attribuita ai principi, dotati di un fondamento già posto, predefinito, di evidenza originaria, che guidano, indirizzano, orientano, mostrano, nell'alveo di un agire finalistico.
3. ibidem
4. ibidem
5. ibidem
6. ibidem
7. ibidem
8. Gv, Prologo, 1-17
9. Gaudium et Spes, 40
10.Gaudium et Spes, 92
11.Gaudium et Spes, 85