venerdì 9 marzo 2012

"Cattolici": il libro

Per i tipi di Lindau esce finalmente in Italia il romando Di Brian Moore "cattolici" da cui prese le mosse il film "Catholics" oggetto di un nostro post. "Avvenire" mercoledì 7 marzo ne ha fatto una recensione a mo' di cordone sanitario, ma, tant'è, ne ha parlato....

Brian Moore
Cattolici

COLLANA: L'aquila e la colomba
PAGINE: pp. 104
PREZZO: euro 12,00


IL LIBRO

Su una piccola isola al largo della costa irlandese una comunità di monaci conserva la «fede dei padri», rendendo culto a Dio nelle forme che la Chiesa ha praticato per secoli. Quando le televisioni americane e la BBC vengono a saperlo, l’antica abbazia di Muck diventa un caso mediatico internazionale: le riprese delle messe in latino e delle confessioni individuali attirano da tutto il mondo cattolici fedeli alla Tradizione e alla liturgia stabilita dal Concilio di Trento. Quella pubblicità appare intollerabile a Roma, dove il Concilio Vaticano IV ha appena sancito la contaminazione del cristianesimo con il buddhismo e l’apertura al secolarismo. Per mettere fine allo scandalo, Roma invia sull’isola un inquisitore, padre Kinsella, con l’incarico di «convincere» l’abate della comunità, Tomás O’Malley, ad allinearsi al Vaticano e a porre fine a quell’intollerabile «eresia». Kinsella scoprirà in O’Malley un uomo di fede assalito dal dubbio, ma convinto che la Tradizione e la verità delle Scritture non richiedano aggiornamenti e compromessi con i tempi.
Il confronto tra i due – uno scontro di psicologie, prima ancora che di dottrine – è il cuore della storia narrata da Brian Moore in Cattolici, un romanzo breve intriso di mistero e suspense.

Qualche assaggio dal libro...
Capitolo 1

L'AUTORE

Brian Moore, nato a Belfast nel 1921 in una famiglia di religione cattolica, durante la seconda guerra mondiale fu al servizio del governo inglese in Nord Africa, Francia e Italia. Emigrato in Canada alla fine degli anni ’40, iniziò a lavorare come giornalista, prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura di romanzi (The Lonely Passion of Judith Hearne, la sua prima opera, risale al 1955) e di sceneggiature, tra cui va ricordata quella di Il sipario strappato di Alfred Hitchcock, del 1966. In Italia sono stati tradotti i romanzi La moglie del mago, La caccia e Cielo gelido (Fazi). Moore è morto nel 1999 a Malibù, in California


giovedì 8 marzo 2012

mercoledì 7 marzo 2012

È morto, applausi

La mia più grande vergogna di italiano sono gli applausi ai funerali, abitudine spaventosa che si è ripetuta mentre il feretro di Lucio Dalla lasciava San Petronio. I sociologi possono anche farmi una pippa così e raccontarmi che trattasi di consuetudine di chiara derivazione televisiva, roba che una volta non c’era: il primo applauso a un funerale pubblico pare che l’abbia beccato Anna Magnani nel 1973. E infatti non è una cultura, è un’incultura: non è un indotto della storia, ma di Domenica In. Ma dovrebbero spiegarmi perché questa cosa esiste solo da noi, come quell’altro orrore che è l’applauso mentre atterra l’aereo.
Hanno applaudito la salma di Berlinguer, quella di Moro, quelle di Nassirya, Falcone e Borsellino, persino Giovanni Paolo II: i pellegrini di tutto il mondo rimasero agghiacciati e increduli. I morti non si applaudono, neanche quelli mediatici. Alla fine del Requiem di Mozart non si applaude. Wagner proibì gli applausi anche alla fine del Parsifal. Non c’entra la religiosità: il raccoglimento è anche laico e pagano, se non reggi la tensione, se la temperatura spirituale è per te inaccessibile, allora stai a casa. Se devi esorcizzare la paura della morte, beh, vai a farti un giro. La buona fede non salva l’ignoranza: un funerale è un rituale, una cerimonia. Provate ad applaudire a un funerale di un marine: i funerali diverranno due.

di Filippo Facci su "Libero" del 6 marzo 2012


Applausi ai funerali: la banalità di un tempo che ignora il Dies irae
Sulle probabili origini di un discutibile uso
di Paolo Zolli

da "Messaggero Veneto", Udine, 29 settembre 1988, riprodotto parzialmente in "notizie", Torino, n° 144, 1989, pp. 5-6, ora, integralmente in "Civitas Christiana" n° 22-26, 1999-2000, pp. 21-23


Non so adoperare il calcolatore elettronico, mi servo ancora di schede e schedine conservate in scatole da scarpe (sono comodissime) per tenere nota dei materiali e delle notizie necessari al mio lavoro, ma sopra tutto ho ancora una buona memoria e la mia biblioteca personale è abbastanza ordinata. Così, quando ho letto sul "Messaggero Veneto del 13 settembre scorso [1988] la lettera di Liana Job sul battimani ai funerali, considerato "una moda venuta dal Sud ove le sceneggiate sono di casa", mi sono ricordato che da qualche parte c’era chi, tempo fa, aveva scritto sull’argomento. Non sarei però andato alla ricerca del pezzo, se un altro lettore, Mario Giudice, non fosse ritornato sul tema il 19 settembre, aggiungendo osservazioni sulla tradizione friulana degli spuntini dopo i funerali. Su quest’ultima abitudine non vorrei peraltro soffermarmi; ricordo soltanto che essa risale a tradizioni antichissime, pre-cristiane, di cui penso esista documentazione amplissima nei libri di etnografia.

Per quanto riguarda invece l’uso del battimani in chiesa, e non soltanto ai funerali, ma anche ai matrimoni e in altre occasioni, qui non c’entrano né il Nord né il Sud (anzi credo che al Sud l’abitudine sia meno diffusa che al Nord, e qui sarebbe interessante poter disporre di informazioni più precise); in realtà si tratta di un’abitudine introdotta negli ultimi anni, quando i riti sacri, e i funerali in particolare, hanno perso l’aspetto solenne e sacrale di un tempo. Storia recente, storia minima, sulla quale non possono esistere quindi ricerche sistematiche, ma sulla quale è bene incominciare a prendere appunti, a fissare sulla carta dati precisi, perché chi come me si occupa di tradizioni popolari, di storia della vita privata e simili, sa quanto sia arduo reperire, a distanza di tempo, indicazioni precise sul momento in cui certe consuetudini si sono introdotte.

Sull’argomento, a ogni modo, si era soffermata (la bibliografia che ho recuperato è tutta qui) Anna Belfiori, prematuramente scomparsa il 17 febbraio scorso, in un articolo pubblicato nel numero di agosto-dicembre 1978 della rivista "Una voce". "In questi ultimi tempi - scrive la Belfiori - sempre più spesso capita di dover assistere a scene di popolo plaudente nei momenti meno adatti. Ricordo il primo applauso che mi colpì, perché mi apparve fuori luogo: fu ai funerali di Anna Magnani. Eravamo abituati a salutare i morti in silenzio, con una preghiera, e quell’applauso scrosciante mi sembrò inopportuno, stonato. Da allora diventò consuetudine applaudire ai funerali. Non solo quando si trattava di attori, per i quali l’applauso poteva essere inteso come un ultimo tributo alla loro arte, prima che su di loro calasse definitivamente il sipario: scena ultima, atto ultimo, ultima replica. Questo malvezzo è dilagato e ora non ci sono pubbliche esequie che non risuonino di applausi". Continuava la Belfiori ricordando gli applausi ai funerali di Aldo Moro, che furono "esplosione della tensione accumulata in quei lunghi, tragici mesi, ma segno di una emotività incapace di trasformarsi in commozione autentica, in dolore consapevole", e quindi, siamo nel 1978, l’anno dei tre Papi, gli ancor più incredibili applausi ai funerali di Paolo VI e di Giovanni Paolo I: "Se applaudire la salma d’un attore - concludeva l’articolo - era segno di superficialità; se applaudire il cadavere di un uomo politico, morto in circostanze tanto drammatiche, era una prova dell’incapacità di riflettere, di raccogliersi, applaudire la salma di un Pontefice mi è sembrato un atto di dissacrazione, di irriverenza", conclusioni su cui non si può non essere d’accordo.

Anna Magnani è morta nel 1973 ed è molto probabile che sia proprio questa la data d’introduzione di questo nuovo rito. Da appena otto anni erano caduti il Dies irae, l’In paradisum deducant te angeli, il Libera me Domine, i grandi canti di terrore ma anche di commossa speranza, di fronte ai quali un applauso sarebbe potuto provenire soltanto da un nemico feroce del morto, non certo da chi ne aveva condiviso gioie e dolori. Il battimani infatti non si concilia né con la morte vista quale dramma, né con la morte vista come uno di quei momenti solenni ai quali l’unico commento è il silenzio, la "quiete solenne della morte" di cui parla con frase insuperabile il Manzoni: quiete, non applausi a scroscio. Il battimani non poteva che nascere dopo le riforme del 1965 e del 1969, quando si è sostituito il nero col viola e il latino col volgare nella messa funebre (ma almeno quella di Giovanni Paolo I ricordo fu celebrata, anzi ohimé concelebrata, col nuovo rito, ma completamente e perfettamente in latino con grande compunzione dal cardinal Confalonieri).

La data 1973 ha buone probabilità di essere il terminus post quem, anche perché in un articolo di un grande giornalista come Vittorio G. Rossi, pubblicato nel numero del primo aprile di quello stesso anno del settimanale "Epoca" e dedicato alla perdita del senso del sacro nella nuova messa funebre, a questo aspetto non si fa ancora cenno. Se a quella data l’uso del battimani fosse già stato introdotto, Vittorio Rossi ne avrebbe certamente parlato, dato che l’articolo è lungo e circostanziato, e sotto certi aspetti perfido ("Quelli che hanno fatto la messa nuova, hanno capito che non bastava sfrattare il latino, ma per dare più spiritualità alla messa hanno inventato la stretta di mano. È la cosa più comica che sia mai stata fatta in una chiesa cattolica. Ci sono vecchie pettegole che si voltano indietro alla ricerca di altre mani da stringere; non gli bastano quelle laterali. Ma io guardo in su, non vedo mani da stringere; il teatro in chiesa non mi è mai piaciuto"). Non so se Vittorio Rossi fosse credente e praticante, ma è certo che la perdita di solennità del rito è stata percepita forse più dai laici che dai cattolici. Un laico di indubbia intelligenza come Luigi Firpo, in un articolo apparso sulla "Stampa" di Torino si dichiara anche lui esterrefatto dopo aver assistito a una messa funebre di nuovo tipo: "Assisto a una messa a Roma, in S. Lorenzo al Verano. Entra l’officiante con i paramenti violacei del lutto, ma è un viola pallido da giardino dei lillà, preoccupato di non alludere al cordoglio, di dare alla morte i colori di una festa campestre. Il prete è giovane, intenso, eloquente; eppure mi disturbano le sue scarpe gialle, i pantaloni di grisaglia chiara che gli sbucano sotto il camice, i capelli lunghi dal taglio mozzo e senza ombra di chierica, l’aria di giovane executive che passava di lì per caso e si presta a dire due parole".

E in una finissima nota apparsa nello stesso giornale il 17 gennaio di quest’anno, Guido Ceronetti, contrapponendo la solennità tuttora persistente nel rito ortodosso allo harakiri liturgico della Chiesa d’Occidente, dichiara che "qualche volta echeggiano note d’organo, ma per accompagnare parole il cui senso melenso può essere offerto in omaggio a Lucio Dalla" e conclude: "uscendo da questi luoghi profanati dall’insulsaggine, ripiglio fiato canticchiandomi un po’ di Dies irae, la più bella, la più attuale delle Internazionali". Già, ma per fare queste cose bisogna avere l’intelligenza e lo spirito d’indipendenza di Ceronetti, gli altri battono le mani.

una volta il popolo applaudiva le prediche! Almeno....

Monito circa gli applausi in chiesa
Affiora qua e là l’uso di applaudire in Chiesa. L’applauso in Chiesa è ordinariamente contrario al carattere sacro e raccolto della casa di Dio, dove i sentimenti anche più veementi di fede e di consenso vanno espressi altrimenti. In più l’applauso in Chiesa è perfettamente contrario alla seria tradizione del nostro popolo ligure.
Avvicinandosi colla Sacra Quaresima il pericolo che l’abuso degli applausi in Chiesa trovi ulteriori sconvenienti conferme, si ammoniscono sacerdoti, religiosi, e fedeli ad astenersene in modo assoluto.
Tutti i Rettori di Chiesa hanno obbligo di reagire in modo dignitoso, avvertendo il popolo della sconvenienza nel momento più opportuno, qualora si desse il caso di applausi in Chiesa. Questo obbligo ricade ed immediatamente sul sacro oratore, ove lo si applaudisse durante la predica.
L’Ordinario avverte che l’abuso degli applausi può portare la sospensione di una predicazione sacra, nonché provvedimenti disciplinari a carico dei responsabili, qualora essi non avessero adempiuto al disposto del presente monito.

Genova, 27 Gennaio 1950.
+ GIUSEPPE card. SIRI, Arcivescovo

martedì 6 marzo 2012

ulteriore deriva della chiesa conciliare





E "adattarono" il rito delle Esequie smentendo Paolo VI.

Vien proprio voglia di dire: "mai dire mai"

Avete capito bene il titolo: non sto parlando di Paolo IV o di san Pio V, ma di affermazioni chiare e precise, approvate in forma specifica da Paolo VI appena nel 1963, ribadite dall'edizione latina delle Esequie (1969) e mai mutate. Ne ho fatto un post più di due anni fa, quando già si parlava dell'imminente uscita del nuovo "adattamento" del rito delle Esequie, e pareva surreale quello che poi è davvero successo.
Pare che non si possa più, neanche in Italia, tradurre la liturgia Romana creata l'altro ieri. No! Bisogna adattare, neanche fossimo in Africa subsahariana. Dove pensano si siano sviluppati i riti romani delle Esequie coloro che hanno confezionato il nuovo adattamento, in Scandinavia?
Non bastava il massiccio "adattamento" del rito del Matrimonio, dove adesso si può cambiare - a piacere della coppia - perfino la formula sacramentale del consenso.... Ora si passa a riempire di ulteriori "oppure" il funerale, in modo da non avere mai una celebrazione non dico uguale, ma nemmeno simile all'altra. Un tempo si diceva che almeno la morte rende tutti uguali (e dal Papa fino all'ultimo fedele laico tutti avevano gli stessi canti nell'ultimo saluto terreno...)

Ma quello che mi sconcerta di più è la quasi totale accettazione della cremazione, e si arriva ad inventare una ritualità e una gestualità estranee al rito vigente, e pure espressamente vietate da un testo approvato dal Papa del Concilio, Paolo VI.
I fautori del Concilio Vaticano Terzo ormai prevengono i concili, mica li aspettano! Aveva approvato il buon papa Paolo queste ovvie parole (vedi qui): "i riti della sepoltura ecclesiastica ed i susseguenti suffragi non si celebreranno mai nel luogo ove avviene la cremazione e neppure vi si accompagnerà il cadavere". [MAI non vuol dire MAI, ovviamente. Infatti ora tutto questo non solo è permesso, ma anzi incoraggiato!]

Questo era il "retrogrado" testo del 1963, che faceva comunque storia per la sua "larghezza", ora leggo con mio stupore e tristezza il seguente paragrafo nella presentazione ufficiale del nuovo Rito delle Esequie:

4. La novità più significativa della seconda edizione del rituale è costituita sicuramente dall’Appendice dedicata alle «Esequie in caso di cremazione». Questa parte è articolata in tre capitoli: «Nel luogo della cremazione», «Monizioni e preghiere per la celebrazione esequiale dopo la cremazione in presenza dell’urna cineraria», «Preghiere per la deposizione dell’urna». Dall’esame delle sequenze rituali proposte e delle indicazioni di carattere pastorale [E il MAI nel luogo della cremazione dove va a finire? Tanto con i motivi pastorali si aggiusta tutto, anche le più grosse novità senza radici passano per motivi pastorali. Quelli che non hanno cittadinanza sono i motivi dottrinali] possiamo dedurre alcune considerazioni [ma le considerazioni si adducono o si deducono?].
- La denominazione di Appendice, oltre a segnalare che non esiste una sua corrispondenza nell’edizione tipica latina [ci stanno dicendo che si sono inventati un'intera liturgia che non esiste nell'editio typica. Miracolo: si adatta pure quello che non c'è!], vuole richiamare il fatto che la Chiesa, anche se non si oppone alla cremazione dei corpi quando non viene fatta in odium fidei, [e chi ha detto che non si oppone? Ma li leggono i documenti? La chiesa non si oppone, di più: RIFUGGE dalla cremazione; ne ha AVVERSIONE, questo dicono i documenti, non le chiacchiere delle conferenze stampa] continua a ritenere la sepoltura del corpo dei defunti la forma più idonea a esprimere la fede nella risurrezione della carne , ad alimentare la pietà dei fedeli verso coloro che sono passati da questo mondo al Padre e a favorire il ricordo e la preghiera di suffragio da parte di familiari e amici.[L'inumazione non è la forma "più idonea", ma l'unica idonea ad esprimere la risurrezione. La cremazione al massimo esprime simbolicamente e in maniera ottima, la pena dell'inferno]
- I vari capitoli dell’Appendice sono preceduti da un’introduzione nella quale vengono segnalati i cambiamenti sociali in atto, ribaditi i riferimenti alla dottrina cristiana e offerte indicazioni di carattere pastorale.
- La celebrazione delle esequie precede di norma la cremazione: in questo caso va posta particolare attenzione alla scelta dei testi più adatti alla circostanza. [Di norma? Perché ti possono portare in Chiesa invece di un corpo, un mucchietto di ceneri che NON SONO PIU' un cadavere? E io le dovrei incensare e benedire? A parte il Mercoledì delle Ceneri, non se ne benedicono altre in Chiesa...]
- Eccezionalmente i riti previsti nella cappella del cimitero o presso la tomba si possono svolgere nella stessa sala crematoria, evitando ogni pericolo di scandalo e l’introdursi di consuetudini estranee ai valori della tradizione cristiana. [altro che evitando il pericolo di scandalo, già a leggere queste cose mi vengono i brividi: i fuochisti accendono il fuoco per bruciare la nonnina e il prete prega per il "refrigerio eterno" della cara defunta. Ma scherziamo? Nella sala crematoria? Ma cosa siamo nei LAGER NAZISTI?]
- Si raccomanda l’accompagnamento del feretro al luogo della cremazione. [Questo è in aperto contrasto con le norme in vigore fino ad oggi, che vietavano di accompagnare il feretro alla cremazione, per non far pensare che sia un'opzione normale tra due possibilità equivalenti!!]
- Particolarmente importante l’affermazione che la cremazione si ritiene conclusa con la deposizione dell’urna nel cimitero da leggersi come conseguenza di quanto affermato al n. 165 a proposito della prassi di spargere le ceneri in natura o di conservarle in luoghi diversi dal cimitero. Tale prassi infatti solleva non poche perplessità sulla sua piena coerenza con la fede cristiana [solleva perplessità... sentite che soft... Si dovrebbe dire chiaro: disperdere le ceneri è in aperto contrasto anche con il minimo della fede cristiana, altro che "piena coerenza"], soprattutto quando sottintende concezioni panteistiche o naturalistiche. Anche se il rituale non prende netta posizione sul versante disciplinare [sdoganamento totale: come dire "io ti dico di non disperdere le ceneri, perchè te lo devo dire, ma tu fai come vuoi, non ci sono sanzioni. Esattamente il contrario di quanto si faceva fino a oggi], offre però sufficienti elementi per una catechesi e un’azione pastorale che sappiano sapientemente educare il popolo di Dio alla fede nella risurrezione dei morti, alla dignità del corpo, all’importanza della memoria dei defunti, alla testimonianza della speranza nella risurrezione. [Quest'ultima frase è il tocco finale: va catechizzato il bruciare il corpo, invece di deporlo nella terra a mo' di seme, come prescrive la Scrittura (san Paolo) e come ha fatto con ovvietà ogni cristiano fin dalle origini, distanziandosi dai riti pagani, ove c'erano, di cremazione. E questo è il ritorno alle origini della liturgia? Ma quali testi possono citare a supporto di queste inaudite innovazioni? E che catechesi volete che rimanga? Brucia tutto, tanto non serve più, SOLO l'anima conta... Si va verso lo spiritualismo negatore della risurrezione. Alla faccia della nuova Evangelizzazione. Devo dire che sono amareggiato che tale testo abbia ricevuto la recognitio.]

Siamo al trionfo del linguaggio politically correct. Della correzione e ribaltamento - a seconda del cambiamento del vento che spira nella società - perfino della dottrina. Quello che l'altro ieri era vietato, ieri era poi tollerato, oggi è ammesso di diritto e domani sarà l'unica forma rimasta. Un passo dopo l'altro si cambia la liturgia e si finisce per cambiare - invevitabilmente - la dottrina. Perché la liturgia plasma l'anima dei fedeli.
E tutto in nome del "sentimento", della "vicinanza pastorale". Non importa la verità del segno (che in altri contesti invece pare un dogma di fede), è prioritario non offendere, non dare l'impressione che la Chiesa non approvi... Non bisogna essere fraintesi. Non bisogna apparire attaccati ai propri riti secolari, l'importante e non allontanare. "Tanto i morti non si lamentano" (mi ha detto un prete!!!).

Mi domando: a quando il rito delle seconde nozze dei divorziati nell' "Appendice" del prossimo "adattamento" del rituale del Matrimonio? E perché non pensare di inserire nel Messale di prossima stampa un "rito straordinario" della "celebrazione festiva" in assenza del presbitero presidente. Il rito c'è già, basta metterlo in appendice. Non importa se non esiste il latino, suvvia, un po' di fantasia. E dimenticavo: la confessione per telefono? Perché non introdurla? Era vietata prima, ma adesso chi non ha un telefonino in tasca? I tempi sono cambiati.... Quello che si faceva ieri, anzi oggi, domani cambia.

Se pensate che abbia esagerato, vi ristampo qui sotto le norme TUTTORA VIGENTI del 1963 approvate da Paolo VI e che aveva portato all'equilibrata soluzione che fino ad oggi esisteva. Ecco l'istruzione sulla Cremazione dei cadaveri, nella sua parte normativa:

La santa madre Chiesa, attenta direttamente al bene spirituale dei fedeli, ma non ignara delle altre necessità, decide di ascoltare benignamente queste richieste, stabilendo quanto segue:
1. Deve essere usata ogni cura perché sia fedelmente mantenuta la consuetudine di seppellire i cadaveri dei fedeli; perciò gli ordinari con opportune istruzioni ed ammonimenti cureranno che il popolo cristiano rifugga dalla cremazione dei cadaveri, e non receda, se non in casi di vera necessità, dall'uso della inumazione, che la Chiesa sempre ritenne e adornò di solenni riti.
2. Tuttavia, per non accrescere le difficoltà di ogni sorta e per non moltiplicare i casi di dispensa dalle leggi vigenti, è sembrato conveniente apportare qualche mitigazione alle disposizioni del diritto canonico, cosí che quanto è stabilito nel can. 1203, pp. 2 (vietata esecuzione del mandato di cremazione) e nel can. 1240, pp. 1, n. 5 (diniego di sepoltura ecclesiastica a chi ha chiesto la cremazione) non sia piú da osservarsi in tutti i casi ma solo quando consti che la cremazione sia voluta come negazione dei dogmi cristiani, o con animo settario, o per odio contro la religione cattolica e la Chiesa.
3. Ne segue che a chi abbia chiesto la cremazione del proprio cadavere non dovranno essere negati, per questo motivo, i sacramenti ed i pubblici suffragi, a meno che consti avere egli fatto tale richiesta per i motivi sopra indicati, ostili alla vita cristiana.
4. Per non indebolire l'attaccamento del popolo cristiano alla tradizione ecclesiastica e per mostrare l'avversione della Chiesa alla cremazione, i riti della sepoltura ecclesiastica ed i susseguenti suffragi non si celebreranno mai nel luogo ove avviene la cremazione e neppure vi si accompagnerà il cadavere.
Gli em.mi padri preposti alla difesa della fede e dei costumi hanno riveduto questa Istruzione l'8 maggio 1963; e il Papa Paolo VI si è degnato di approvarla nell'udienza concessa all'em.mo segretario del Sant'Offizio il 5 luglio dello stesso anno

Testo preso da: Cantuale Antonianum
LA TEOLOGIA DELLE ESEQUIE CRISTIANE

Uno degli errori oggi più diffusi è quello di sottovalutare le basi teologiche e impostare dei progetti pastorali senza il fondamento dottrinale, con esclusiva attenzione alle urgenze sociologiche. In tal modo tutto diventa fragile e, in poco tempo, anche un progetto alquanto elaborato viene travolto dal passare di quelle opinioni momentanee che l’hanno generato. Questa insipienza, tipica del relativismo, porta a non dedicare sufficiente tempo ed energie alla formazione teologica e, non considerandone adeguatamente la sua necessità essenziale, tutta la costruzione è posta in stato permanente di crollo. E’ ciò che avviene anche nel tessuto ecclesiale, quando miriadi di pubblicazioni e interminabili riunioni producono frutti effimeri e bruciano inutilmente le migliori intenzioni. Di qui lo stato diffuso di spossatezza e di inefficacia, che debilita i pastori e i fedeli.
Anche riguardo alle esequie ecclesiastiche, una pastorale intelligente, duratura ed efficace sul popolo di Dio, non può che basarsi su una solida teologia, che illumini e giustifichi il senso dei riti liturgici. Il Sommo Pontefice Benedetto XVI è maestro di questa rifondazione teologica a tutto l’agire della Chiesa e il suo magistero, se accolto con docilità, porterà la Chiesa a quella solidità di pensiero e di azione, che è intrinseca alla rivelazione divina e che non ammette il dubbio sistematico e la vaporosità di una ricerca mai conclusa e fine a se stessa. Per questa urgente opera di rifondazione teologica il Papa esordisce indicando come prima emergenza proprio la Liturgia, culmen et et fons’ della vita della Chiesa. Le sue omelie, in particolare, introducono i fedeli nella celebrazione dei santi Misteri in linea con la più classica tradizione mistagogica dei Padri, costituendo un esempio di alto profilo per tutti i sacerdoti.
Le esequie cristiane si rapportano alle due dimensioni costitutive dell’uomo: l’anima e il corpo. La Chiesa eleva il pio suffragio per l’anima immortale del defunto, nella speranza della sua eterna salvezza, e ne onora con una degna sepoltura il corpo esanime, nell’attesa della sua risurrezione.
I riti esequiali descrivono e trasmettono fondamentali articoli di fede, che costituiscono la ‘forma’ interiore e il senso dei riti esteriori trasmessi dalla tradizione liturgica.
Possiamo allora individuare i principali dogmi che vi sono sottesi.

1. L’immortalità dell’anima
Nelle esequie cristiane spira una presenza soprannaturale, che ci fa percepire che l’anima del defunto non è estinta nel nulla, ma è viva, perché immortale. Sta ora sul versante ultraterreno, è uscita dal regime della fede ed è entrata nella dimensione dell’ eternità. Pur separata dal corpo, sussiste nell’esercizio, per quanto misterioso ma reale, delle sue facoltà spirituali. Tale certezza fa delle esequie una celebrazione di vita e di profonda serenità, pur nell’amarezza delle lacrime per il distacco e apre i credenti all’attesa di un rinnovato incontro con chi vive e ci aspetta lassù, come ben si esprime una monizione del rito delle esequie: “…di nuovo infatti, potremo godere della presenza del fratello nostro e della sua amicizia e, questa nostra assemblea, che ora con tristezza sciogliamo, lieti un giorno nel regno di Dio ricomporremo” (Rito delle Esequie, n. 73).

2. Il purgatorio
La Chiesa sa bene che ogni uomo è peccatore e, nonostante il lavacro battesimale, a causa della concupiscenza, la vita della Grazia è fragile e l’itinerario terreno faticoso e incerto. Al di là del perdono sacramentale, elargito ordinariamente mediante il sacramento della Penitenza, la Giustizia divina esige una adeguata riparazione, prima che l’anima possa accedere alla gloria: è il dogma del purgatorio. La Chiesa, dunque, non presume mai nei suoi figli quello stato perfetto di santità, che solo Dio può riconoscere e, umilmente, invoca misericordia, eleva il suffragio e si mantiene sotto il giogo della penitenza. Per questo lo stile della liturgia esequiale è penitenziale: nel colore (viola o nero), nell’addobbo (assenza di fiori), nel tenore delle orazioni e nei canti. La Chiesa non ‘canonizza’ il defunto, ma lo affida a Dio con il cuore contrito ed umiliato e aspetta solo da Lui la lode. In qualche modo, nelle esequie, la Chiesa, secondo la parabola evangelica del banchetto nuziale (Lc 14, 7ss.), pone il defunto all’ultimo posto, steso a terra ai piedi della ‘santa mensa’, e attende che Dio stesso, e solo Lui, sorga e dica “Amico, passa più avanti” (Lc 14, 10).

3. La comunione dei Santi
La Chiesa sa di poter comunicare misteriosamente con i Defunti, di poterli affidare realmente alla misericordia di Dio, di avere con loro una misteriosa solidarietà soprannaturale e ricevere il beneficio di una invisibile e valida intercessione. Per questo educa i suoi figli, ancora peregrini qui in terra, a mantenere una continua comunione con coloro che ci hanno preceduti nel segno della fede e dormono il sonno della pace. Le persone amate e tutti quelli che ci hanno fatto del bene ci seguono, ci amano con carità soprannaturale e intercedono per noi secondo i disegni di Dio. Essi ci attendono là dove ogni lacrima sarà asciugata e si vedrà il volto di Dio. S. Cipriano afferma tutto ciò con squisita dolcezza: “Là ci attende un gran numero di nostri cari, ci desiderano i nostri genitori, i fratelli, i figli in festosa e gioconda compagnia, sicuri ormai della propria felicità, ma ancora trepidanti per la nostra salvezza” (Lit. Ore, Uff. lett. venerdì 34° sett. ord.).
Soffermiamoci a questo punto a considerare gli effetti che la secolarizzazione sta oggi producendo, entrando violentemente nella liturgia esequiale della Chiesa. Il cuneo che ne consente l’ingresso è costituito da un concetto di ‘pastorale’ intesa ormai solo come accondiscendenza sociologica all’ambiente, senza più riferimento al Mistero della fede.
La mentalità secolarizzata dominante cancella totalmente i dogmi della fede sopra esposti e svuota di conseguenza lo spirito e la lettera dei riti liturgici stabiliti dalla Chiesa, che vengono devitalizzati, alterati e, infine, omessi e reinventati.
Mentre le esequie ecclesiastiche sono celebrazioni vive nel presente e rivolte al futuro, aperte alla speranza teologale e alla luce mirabile di ciò che ancora non vediamo, le esequie secolarizzate sono irreversibilmente rivolte al passato, travolte dal flusso inesorabile del tempo e fragili come la memoria psicologica. Infatti, se il defunto è nel nulla e di lui non rimane niente come persona viva, se insomma l’immortalità dell’anima è negata, resta solo il triste ricordo, totalmente sul versante del passato e inesorabilmente sempre più flebile, fino alla sua graduale dissoluzione. Per questo la secolarizzazione accentra la celebrazione sulla commemorazione del defunto. Essa, infatti, è il perno rituale nelle esequie profane. Ma la commemorazione è sguardo al passato. La persona commemorata né vive, né più ritornerà. Di essa rimangono solo le sue idee, il suo esempio e le sue opere: tutte realtà compiute dalla persona estinta, ma prive del soggetto vivo che le ha prodotte e quindi affidate alla interpretazione positiva o negativa dei posteri, come anche alla loro totale obliterazione.
Se l’anima non vive più, diventa del tutto inutile la preghiera di suffragio per l’eventuale purificazione ultraterrena. Col dogma dell’immortalità dell’anima cade pure quello sul purgatorio e quello della comunione dei Santi. Così in linea con la secolarizzazione si farà ampio uso dell’elogio.
Non resta, infatti, che celebrare con enfasi quei ‘fasti’, che ora sono retaggio della memoria di chi ha conosciuto il defunto. La compiacenza verso i parenti o verso le istituzioni a cui apparteneva esige che un grande elogio funebre consoli chi resta e giustifichi l’ideologia o l’istituzione a cui il defunto aderiva. Ebbene la commemorazione e l’elogio stanno inquinando in modo esteso le esequie cristiane, sia in certe omelie, come soprattutto in interventi disseminati nel tessuto del rito esequiale e proposti in momenti rituali e luoghi sacri del tutto impropri. La ‘canonizzazione’ del defunto si manifesta anche nei riti: l’uso facile di paramenti bianchi e canti di superficiale sentimentalismo stanno corrompendo la liturgia esequiale cristiana, che da molte parti non esiste più nella sua vera identità. Gli applausi sono i prodotti secolaristici delle acclamazioni liturgiche e un buonismo livellante sta cancellando ogni annunzio rigoroso del dogma della fede. Quella sobrietà e delicata circospezione che la Chiesa raccomanda, sia nel ricordare il defunto, come nel proporlo ad eventuale esempio ai fedeli, sta cedendo di fronte all’irruzione del costume dominante, che ormai costringe e assedia con modelli imposti violentemente dall’opinione.
Le esequie si rapportano anche al corpo del defunto, che sta per ricevere degna sepoltura. Ed anche verso di esso i riti della Chiesa rivelano e comunicano importanti dogmi di fede, che completano quelli già sopra descritti.

4. Il peccato originale
Il corpo quando è vitale sta in posizione eretta, ma, appena la vita lo abbandona, cade a terra e rimane disteso. Tutti gli uomini non possono che constatare questo fatto fisico. E’ quindi questa la posizione più naturale del corpo esanime nelle esequie. La Chiesa però non si ferma a questo dato e annunzia un mistero più profondo: l’uomo muore a causa del peccato originale, secondo le stesse parole del Signore Dio “…polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3, 19). Deponendo il corpo dei suoi defunti, la Chiesa proclama la realtà del peccato originale, di cui la morte corporale è frutto e immagine. Essa non è secondo il piano di Dio, infatti: Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 1, 13.2, 24). In tal senso il Miserere (Sl 50) è parte tradizionale delle esequie cristiane: ‘nel peccato mi ha concepito mia madre’. Il corpo disteso a terra, quasi a contatto con essa, proclama in modo visivo il nostro essere peccatori, pagandone il prezzo con la perdita dell’immortalità e portando nella nostra carne fino alle ultime conseguenze il castigo divino, pronunziato fin dalle origini: “…tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto…” (Gen 3, 19).

5. L’ultima penitenza
La morte corporale è l’ultimo atto della necessaria penitenza dovuta al peccato. Tutti, per quanto eminenti in santità, devono passare per questo estrema prostrazione penitenziale. Il Signore stesso, senza peccato, ha voluto subire nella sua morte e sepoltura, quella abissale umiliazione penitenziale che ci ha redenti. Ed ecco che il corpo senza vita del defunto, deposto davanti all’altare, in qualche modo celebra il suo ultimo atto penitenziale: il giacere esanime sulla terra. Lo aveva ben compreso S. Francesco di Assisi, che in prossimità della morte, volle farsi deporre dai suoi confratelli sulla nuda terra e così esalare l’ultimo respiro. Lo comprese il Papa Paolo VI, che volle il suo feretro a contatto con la terra e in tal modo ispirò la forma più eloquente del rito cristiano delle esequie. Ma il defunto non giace da solo, la tradizione pone sulla bara la Croce. Egli giace in misteriosa solidarietà col mistero della sepoltura del Signore e lo Spirito custodisce la sua carne in attesa del risveglio.

6. La risurrezione della carne
Il feretro è vigilato dal Cero pasquale, che dal suo candelabro illumina le tenebre della morte: è Cristo risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti (1 Cor 15, 20). Se la croce sulla bara annunzia la solidarietà con la morte del Signore, il Cero pasquale annunzia la futura risurrezione di questa medesima carne, che ora sta esanime e immota. Poi quel corpo sarà deposto nel cimitero, ossia nel dormitorio, termine cristiano per affermare il misterioso ma vero risveglio nell’ultimo giorno. Tutto quindi parla di vita, anche per la carne e non solo per l’anima; e questa è la novità più tipica dell’escatologia cristiana, che annunzia una salvezza integrale della totalità della persona, anima e corpo.
Ed ecco, che, appena la secolarizzazione invade il rito cristiano delle esequie, pure questi altri dogmi della nostra fede vengono letteralmente cancellati e alla loro rimozione segue, inevitabile, una liturgia di sostituzione, che interpreta la nuova visione. Se cade il dogma del peccato originale, cade quello della penitenza quale necessità per il peccato e, se già l’anima è estinta nel nulla, ancor più il corpo è ormai inteso come materiale inerte, senza la profondità propria del mistero di Dio, che lo risusciterà. Anche riguardo al corpo nelle esequie secolarizzate lo sguardo è irrimediabilmente rivolto al passato: non c’è l’orizzonte luminoso sul Dio dei viventi e l’attesa dell’opera meravigliosa, che Egli compirà nel giorno della risurrezione. I riti allora dovranno interpretare la visione dell’uomo terreno, ormai privo del trascendente. Il corpo subisce la fatua celebrazione di ciò che fu nel passato mediante il tumolo, monumento celebrativo che vuole interpretare la personalità dell’estinto. Si metterà in luce il suo ruolo, la sua autorità, il suo genio, la sua opera, ma al contempo si creerà una graduazione di classi in base al censo, o al ruolo sociale. Comunque sarà oscurata sia la fondamentale realtà della morte che tutti accomuna, sia dell’umile penitenza che è intrinseca allo stato del corpo morto. Il tumolo potrà avere diverse tipologie, che da quelle storiche arrivano a quell’ingombro di oggetti, cari al defunto, che oggi coprono, talvolta banalmente la bara, ma rappresenta sempre il segno eloquente di quella commemorazione rivolta irrimediabilmente al passato e ormai priva di vita, che sarà tanto più accentuata quanto più si eclisserà il senso della trascendenza e il compimento ultimo nel futuro di Dio. Non si intende qui considerare le diverse forme storiche, assunte anche dalla liturgia della Chiesa, ma assicurare che in ogni forma antica o nuova non venga mai compromesso il carattere cristiano e i diversi aspetti del dogma della fede che vi sono connessi e che nelle modalità rituali devono essere ben visibili. E’ altresì evidente che nella celebrazione profana delle funerali il tumolo col cadavere elevato e onorato diventa l’icona centrale, il punto ottico di attrazione, ma nella celebrazione esequiale cristiana, invece, nessuno dovrà mai attentare alla centralità, al primato e alla sacralità dell’altare. Anche il corpo esanime del defunto è orientato all’altare, davanti ad esso sta prostrato e da esso, sul quale si compie il Sacrificio incruento della Croce, scaturisce la sorgente viva della salvezza eterna dell’anima e il soffio vitale che risusciterà la carne nell’ultimo giorno. A nessuno, dunque, è lecito attentare alla maestà dell’altare!
Un ultimo dogma della fede sta a fondamento del carattere proprio delle esequie cristiane:

7. Il giudizio particolare da parte dell’unico giudice costituito da Dio, il Signore Gesù Cristo.
Occorre non dimenticare ciò che afferma l’Apostolo: Io neppure giudico me stesso… Il mio giudice è il Signore (1 Cor 4, 4). La Chiesa, ispirando a sobrietà la commemorazione del defunto ed evitando un superficiale elogio, sa bene che solo Dio è il giudice e solo Cristo sa quello che c’ è nel cuore dell’uomo (Gv 2, 25). Quello che di una persona apparve in vita potrebbe essere una ingannevole maschera, infatti l’uomo guarda all’apparenza, ma Dio guarda al cuore (1 Sam 16, 7). S. Agostino afferma: “Quale uomo infatti è in grado di giudicare un altro uomo? Il mondo è pieno di giudizi avventati. Colui del quale dovremmo disperare, ecco che all’improvviso si converte e diviene ottimo. Colui dal quale ci saremmo aspettati molto, ad un tratto si allontana dal bene e diventa pessimo…. Che cosa sia oggi ciascun uomo, a stento lo sa lo stesso uomo. Tuttavia fino a un certo punto egli sa cosa è oggi, ma non già quello che sarà domani…” (dal ‘Discorso sui pastori’). Per questo la Chiesa si discosta dal giudizio e lo affida a Dio, restando in profonda adorazione del Suo giusto verdetto. Ciò non succede nelle esequie secolari, che impostano inevitabilmente la loro celebrazione sul mero tessuto dell’apparenza umana dell’estinto e si pronunziano solo sulla corteccia superficiale delle sue opere esteriori. Lo sguardo umano non può, infatti, andare oltre a ciò che appare e il mistero della persona rimane velato. Solo Dio penetra quel velo, scruta le facoltà interiori e pronunzia un giudizio vero, inappellabile e definitivo. Anzi, mediante l’elogio, tale apparenza tende ad essere potenziata e, omessa ogni scoria e debolezza, viene idealizzata, perché non resta altro che ciò che appare. Non raramente poi la verità oggettiva in ordine al bene e al male viene oscurata da una commemorazione riduttiva, posta a servizio delle tante umane convenienze di coloro che rimangono. Certo non si intende delegittimare la giusta commemorazione e il dovuto elogio, se il defunto veramente lo merita. Infatti le esequie del Giusto dovrebbero essere il suo ultimo atto di evangelizzazione e la consegna alla Chiesa, che lo ha generato, della sua estrema testimonianza di fedeltà e di vita in Cristo. Tuttavia sono diversi i toni, sobri gli accenni, umili i ricordi, contenuti i tempi e mai dovrà essere incrinato o in qualche modo oscurato il primato di Cristo e del suo Mistero. Egli è il Protagonista e con Lui la Chiesa, non dissociabile da Lui Sposa. In realtà ogni intervento indebito sul rito liturgico delle esequie espone il defunto ad un protagonismo che non deve avere e strumentalizza la fede e la liturgia al servizio del piccolo orizzonte di ciò che noi percepiamo.
Se non si interviene con urgenza e determinazione nella liturgia esequiale, come in molti altri campi della vita della Chiesa attuale, si arriverà, in un futuro molto prossimo, ad essere posti al servizio delle opinioni e del costume dominante e si potrebbe seriamente rischiare che l’eresia sia attribuita all’ortodossia, resa minoritaria, e a coloro che con tutte le forze cercano di mantenersi fedeli al dogma della fede e alla disciplina della Chiesa.
Che una solida teologia sia a fondamento di una nobile liturgia e l’intelligente obbedienza alle prescrizioni della Chiesa offra al popolo di Dio una edificante e degna celebrazione delle esequie dei figli di Dio.


Testo preso da: Una sintesi della teologia delle esequie cristiane http://www.cantualeantonianum.com/2010/10/una-sintesi-della-teologia-delle.html#ixzz1oLqnRiPy
http://www.cantualeantonianum.com

domenica 4 marzo 2012

Ci preoccupiamo di crescere in un senso cattolico della vita, vogliamo vivere integralmente una vita cristiana, per questo vogliamo vivere con la Messa della Tradizione

Valida non è buona
Se avessimo ritenuto che la Messa com'è celebrata nella quasi totalità delle chiese andasse bene, non avremmo deciso di passare totalmente al rito antico.

Sia ben chiaro: non stiamo dicendo che la Messa nel Novus ordo (la Messa di Paolo VI, riformata dopo il Concilio Vaticano II) non sia valida! Ci mancherebbe! Affermare questo sarebbe non ragionare più in modo cattolico!

Certo che la Messa di Paolo VI è valida, certo che è una vera Messa, solo che è così ridotta nel suo esprimere il senso cattolico del Santo Sacrifico di Cristo, da non educare compiutamente i fedeli ed anche i sacerdoti che la celebrano.

Molti diranno: “Ma se è una vera Messa, se è valida, di che cosa vi preoccupate?”.

Ci preoccupiamo di crescere in un senso cattolico della vita, vogliamo vivere integralmente una vita cristiana, per questo vogliamo vivere con la Messa della Tradizione.

Non c'è niente da fare: la crisi impressionante del Cattolicesimo nel nostro mondo, la confusione dottrinale e spirituale nella quale siamo immersi da troppi anni, l'abbandono imponente della pratica cristiana nei nostri paesi e città, ha la sua causa centrale in una riforma liturgica che ha stravolto il baluardo della fede e della vita cristiana.

Il nuovo rito della Messa, fatto per piacere anche ai fratelli separati delle altre confessioni cristiane (innanzitutto ai Protestanti e agli Anglicani), tacendo sugli aspetti principali della concezione cattolica della Messa, ha fatto sì che la liturgia non sia più la roccia sicura su cui fondare la vita cristiana, personale e sociale.

Il nuovo rito ha indebolito nei fedeli il senso di Dio, l'adorazione di Cristo presente nelle specie eucaristiche, la centralità del sacrificio espiatorio, la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo. Non vogliamo fare un elenco dei “vuoti” del nuovo rito della Messa, ci basta sottolinearne gli effetti devastanti.

Solo degli ideologizzati del post-concilio o della modernità a tutti i costi possono non vedere
l'esito penoso, drammaticamente penoso, della riforma liturgica.
Esito penoso che coinvolge tutti, sacerdoti e fedeli.

Nel migliore dei casi la nuova Messa, quando è celebrata con rispetto e dignità, lascia i fedeli che vi assistono così come sono: se questi sono già profondamente cattolici, probabilmente lo resteranno, ma se sono deboli nella fede e in uno sguardo cattolico sulla vita, in questa nuova Messa non troveranno una provocazione alla conversione profonda, anche culturale; saranno invece “cullati” nel loro modo ridotto di considerare il Cristianesimo.

La Messa tradizionale no! Non è così! È una Messa “difficile”, non per il latino, ma per le provocazioni che lancia.

Sul subito, per un cristiano “piccino” nella mente e nel cuore, può risultare un pugno nello stomaco, ma un pugno salutare. Ti mette in crisi, mette in crisi le false certezze di un cristianesimo troppo umanizzato che mette l'uomo al centro e dimentica Dio. Mette in crisi un cristianesimo che si è imbevuto della mentalità dominante e che è sempre più una scuola di agnosticismo.

La Messa tradizionale mette in crisi, ma dopo la crisi costruisce, edifica. In chi vi assiste con fedeltà, la Messa di sempre inizia un'opera di educazione alla fede profonda, totale, solida.

Se un fedele non si scandalizza delle difficoltà iniziali, nel tempo scopre tutta la ricchezza della liturgia secondo la Tradizione, e grazie ad essa vede edificare nella santità e nell'intelligenza della fede tutta la propria vita. Per questo abbiamo voluto vivere solo con la Messa tradizionale. Per questo pensiamo che sia il ritorno ad essa il migliore sostegno alla Missione urgente di riportare il Cattolicesimo nella vita normale del popolo.

Chissà che, dopo le polemiche, si possa riaprire una proficua riflessione su questi punti.

tratto da: http://radicatinellafede.blogspot.com/