lunedì 17 dicembre 2012

tasse e tiranni: criteri fondamentali

“Il cristiano non deve sempre tirarsi indietro, far la parte del moderato, del perennemente condannato alla perplessità, all’astensione e all’impotenza, lasciando così praticamente le fila del movimento della storia in mano a coloro che sono meno dotati di scrupoli; il cristiano, quindi, non deve rifiutare di usare la forza giusta, quando sia necessario in modo assoluto” (R. Pizzorni). Introduzione/attualità In questi ultimi mesi si parla molto del dovere di pagare le tasse, del danno grave che arrecano alla Società gli evasori fiscali. Tuttavia si omette di ricordare che vi sono tasse giuste, che vanno pagate sotto pena di peccato mortale e di reato penale, tasse ingiuste, che si possono evadere senza peccato e senza reato e addirittura tasse intrinsecamente e direttamente perverse, ossia direttamente contrarie alla legge divina, che debbono essere non pagate anche col rischio della propria vita. In quest’articolo cercherò di esporre ...
... un sunto della dottrina cattolica tradizionale a riguardo.
La dottrina cattolica
Se lo Stato esige dall’individuo un sacrificio non necessario al bene comune, come quando impone ai sudditi imposte troppo onerose (se per esempio le imposte dirette superino il 20% ed arrivassero al 50% di ciò che il capofamiglia guadagna) e che non giovano al bene pubblico, esse non obbligano in coscienza.
I moralisti in genere insegnano che l’imposta giusta non deve superare circa il 10 % -20 % del salario: “Bisogna riconoscere che in pratica gli Stati abusano del loro diritto di imporre i tributi, elevandoli a dismisura, senza un’adeguata ragione di bene comune, per cui facilmente i cittadini si convincono della poca giustizia dei tributi [...]. Per questo oggi i teologi parlano di rieducazione dello Stato e dei cittadini alle proprie responsabilità [imporre imposte giuste, e dovere di pagare le imposte giuste, nda]...” (Enciclopedia Cattolica, vol. XII, col. 512, Città del Vaticano, 1954).
È chiaro che non solo i cittadini hanno l’obbligo di pagare le tasse, ma soprattutto lo Stato deve essere rieducato ad imporre tasse giuste quanto alla materia (non oltre il 20%) e quanto al fine (per il bene comune della Nazione); esso deve trattare i contribuenti come cittadini e non come schiavi, se non vuole diventare tirannide (cfr. S. Th., II-II, q. 64, a.1, ad 5um). Ora si costata che soprattutto oggi le tasse sono ingiuste sia quanto alla materia (esse superano di gran lunga il limite del 20%) sia quanto al fine (non mi riferisco solo agli episodi di ruberie da parte dei governanti, ma soprattutto al fatto che oggi le Patrie non esistono più e si tende alla globalizzazione e alla costruzione del Nuovo Ordine Mondiale, che è il nemico delle Patrie e del bene comune dei cittadini). Il governo di tecnici, sotto apparenza di bene, sta instaurando una cleptocrazia e uno stato di polizia ove il benessere comune della Società civile e le vere libertà della persona sono quasi totalmente inesistenti. Se già da qualche decennio la situazione degli Stati è iniziata a degenerare, oramai si può parlare di vera e propria tirannia. Cerchiamo di vedere qual è la giusta attitudine da adottare in questo stato di cose.
Resistenza alle leggi ingiuste
Una legge può essere ingiusta in due maniere:
a) se prescrive una cosa direttamente contraria al diritto divino (es. aborto, divorzio, matrimoni omosessuali ed eutanasia …).
b) Se si oppone al diritto umano (imposte troppo onerose, che sorpassano il 10-20% di quanto guadagna il capo famiglia). Le tasse ingiuste (contrarie al diritto umano) se sono utilizzate dallo Stato anche per un fine cattivo (per la pratica degli aborti) diventano indirettamente contrarie al diritto divino.
In tutti i casi tali prescrizioni “non hanno alcuna forza di legge, perché sono in disaccordo - scrive Leone XIII - con i princìpi della retta ragione e gli interessi del bene pubblico” ([1]) e quindi non obbligano in coscienza. Per quanto riguarda le tasse ingiuste è lecito perciò praticare la ‘compensatio occulta’, ossia possono essere evase, e, se vengono impiegate direttamente per un fine contrario alla legge divina, debbono essere evase (per esempio se arrivasse al cittadino una cartella delle imposte con specificata richiesta di un importo per la pratica degli aborti, bisogna fare l’obiezione di coscienza anche a costo di grave incomodo, pure sotto pena di morte). Se invece le tasse sono impiegate soltanto indirettamente per un fine contrario alla legge naturale e divina (se arriva la richiesta delle tasse con cui lo Stato finanzia anche gli aborti, senza che ciò sia specificato e venga richiesta una somma per questo fine intrinsecamente malvagio) possono essere evase a condizione che non obblighino con grave incomodo (persecuzione, carcere, uccisione).
Si può obiettare: chi ha il diritto di giudicare se una legge è nociva? La risposta è semplice: ogni coscienza retta è normalmente in grado di discernere; nei casi difficili bisogna farsi illuminare da uomini prudenti e competenti, possibilmente ecclesiastici. In breve, la tradizione scolastica, quasi unanimemente, riconosce che la Nazione ha il diritto di resistenza, che può giungere, come extrema ratio, sino alla rivolta e alla deposizione del tiranno.
Liceità della resistenza alla legge ingiusta
Il Padre gesuita Andrea Oddone ha scritto nel 1944-45 che la resistenza passiva è sempre lecita nei riguardi di una legge ingiusta. La resistenza attiva legale, in casi in cui la religione è messa in pericolo, è lecita, anzi occorre ²deplorare - come insegna Leone XIII nell’Enciclica Sapientiae christianae del 1890 - l’attitudine di coloro che rifiutano di resistere per non irritare gli avversari”. La resistenza attiva armata è legittima:
a) se la tirannia è costante;
b) se è manifesta o giudicata tale dalla “sanior pars” della società;
c) se le probabilità di successo sono numerose;
d) se la situazione successiva non si prevede peggiore dell’anteriore ([2]).
Ai nostri giorni il Padre domenicano Reginaldo Pizzorni insegna che l’obbligazione appartiene all’essenza della legge, perché sarebbe inconcepibile una legge non obbligante; però si pone una domanda: “Siamo sempre tenuti a ubbidire alla legge umana?; oppure: è lecita la resistenza alla legge ingiusta?, è ‘un sacro dovere’ la resistenza all’oppressione?” ([3]).
Per i Padri e i Dottori della Chiesa la risposta è unanime. S. Agostino dice: “legge ingiusta, legge nulla” ([4]) ; essa non è più legge sed corruptio legis. Parimenti “un’autorità che non s’ispirasse alla giustizia sarebbe tirannide e la sua legge non avrebbe più un valore intrinseco di giuridicità, ma sarebbe solo una perversione della legge, più che una legge sarebbe un’iniquità, per cui non ha più natura di legge, ma di in-giustizia. Quindi [...] non è assolutamente vincolante, perché nulla che è contro la ragione è permesso” ([5]). In questi casi non solo è lecito non ubbidire, “ma sarà moralmente legittima anche la resistenza, benché i limiti della stessa siano segnati dalla conservazione del bene comune, che deve prevalere sul bene individuale [...]. Pertanto anche delle leggi ingiuste, a meno che non si tratti di leggi contrarie direttamente al bonum divinum, nel qual caso in nessun modo si possono osservare (S.Th., I-II, q. 96, a. 4), possono obbligare per [...] salvare l’ordine e la tranquillità dello Stato. [...]. Non bisogna tuttavia temere tra i sudditi solo lo spirito di ribellione, ma anche quello del servilismo” ([6]).
Per quali motivi, prosegue padre Pizzorni, “la legge è propriamente ingiusta? Per due motivi:
1°) Perché in contrasto col bene umano:
a) sia per il fine, come quando chi comanda impone al suddito leggi onerose (come le tasse sproporzionate), non per il bene comune, ma piuttosto per la sua cupidigia (l’arricchimento dei politicanti);
b) sia per l’autorità, come quando uno emana una legge superiore ai propri poteri [per esempio lo Stato che voglia legiferare in spiritualibus] ; [...]. Perciò codeste leggi non obbligano in coscienza; a meno che non si tratti di evitare scandali o turbamenti [...].
2°) Perché contrarie al bene divino: come le leggi che portano direttamente all’idolatria [...]. E tali leggi in nessun modo si possono osservare; poiché sta scritto: ‘Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini’ (Atti, V, 29)” ([7]).
Nel resistere alla legge ingiusta occorre distinguere la resistenza passiva da quella attiva.
La resistenza passiva consiste nella non esecuzione della legge ingiusta, fino a che non vi si è costretti con la forza; ma nel caso in cui la legge ingiusta comandi qualcosa di peccaminoso, “un atto intrinsecamente cattivo in sé, la resistenza non solo è permessa, ma è sempre obbligatoria; non si possono eseguire ordini criminali” ([8]).
La resistenza attiva, a sua volta, si suddivide in :
a) Resistenza attiva non violenta: consiste in un’opposizione positiva alla legge ingiusta, compiuta sul terreno delle leggi o con mezzi legali, per es. pubbliche riunioni, proteste, petizioni, ricorso ai tribunali. “Occorre non rifugiarsi nell’indifferenza e nell’inerzia di coloro che non sanno o non vogliono organizzarsi e lottare per una causa nobile e giusta, per timore e viltà di affrontare i sacrifici e i maggiori doveri che questa lotta porta con sé [...]. ‘A chi cadrebbe in animo di tacciare i cristiani dei primi secoli di nemici dell’Impero Romano, solo perché non si curvavano dinanzi alle prescrizioni idolatriche, ma si sforzavano di ottenerne l’abolizione?’ (Leone XIII, Lettera ‘Notre Consolation’ ai cardinali francesi , 3 maggio 1892)” ([9]) .
b) Resistenza attiva violenta o a mano armata: “Quando la legge ingiusta cerca di imporsi con la violenza e con la forza, è lecito ai cittadini organizzarsi e armarsi, opporre la forza alla forza” ([10]). Padre Pizzorni continua: “il diritto di resistenza è generalmente ammesso, e, da S. Tommaso in poi, salvo rare eccezioni, è stato ammesso anche da tutti i teologi come ultima ratio, come ultimo ed estremo rimedio, quando tutti gli altri mezzi previsti non sono possibili o si sono dimostrati insufficienti” ([11]).
Tuttavia, occorre specificare che secondo l’Angelico le condizioni richieste per la liceità della resistenza attiva, violenta o a mano armata sono quattro:
1°) la tirannide deve essere costante e abituale, tale da rendersi intollerabile, e ciò vale sia per il tiranno di usurpazione che per quello di governo (De regimine principum I, 7).
2°) La gravità della situazione deve essere manifesta, non solo a una qualsiasi persona privata, ma alla sanior pars populi.
Qualora non vi sia un superiore del re, come l’Imperatore o il Papa che deponeva i tiranni, secondo S. Tommaso è la vox populi o la multitudo, ossia la comunità, che debbono farsi sentire, guidate dal consiglio degli homines virtuosi. Così “quelle persone non agirebbero più come persone private, ma come persone autorizzate dal popolo, la qual cosa è richiesta perché il punire è un atto di giurisdizione che richiede un superiore” ([12]).
3°) Ci deve essere una fondata speranza di riuscita: altrimenti non vi sarebbe ragion sufficiente di insorgere, per il pericolo di inasprire la tirannide. La resistenza armata deve perciò essere ben organizzata, ben concordata e ben condotta.
4°) La caduta del tiranno non deve creare una situazione peggiore di quella in cui si stava prima.
“Il cristiano non deve sempre tirarsi indietro, far la parte del moderato, del perennemente condannato alla perplessità, all’astensione e all’impotenza, lasciando così praticamente le fila del movimento della storia in mano a coloro che sono meno dotati di scrupoli; il cristiano, quindi, non deve rifiutare di usare la forza giusta, quando sia necessario in modo assoluto” ([13]).
La tirannide
Secondo S. Tommaso l’essenza della tirannide si esprime nei comandi rivolti dall’Autorità ai sudditi non in quanto soggetti della società bensì come schiavi (S. Th. , II-II, q. 64, a.1, ad 5um). I commentatori dell’Angelico, ad esempio il Gaetano ([14]) e Suarez ([15]), distinguono tra tiranno d’usurpazione e tiranno di governo.
1°) Il Tiranno d’usurpazione è l’ingiusto aggressore di un potere legittimo. All’inizio del suo operare, egli è senza titolo legittimo, ma dopo un certo tempo può giungere ad imporsi e la Nazione può accettarlo come suo capo legittimo.
2°) Il Tiranno di governo è un sovrano legittimo, regolarmente investito del potere. Ma egli abusa dell’autorità, non governando per il bene comune dei sudditi, bensì per il proprio.
Tirannia e legittimità
Nessuna società potrebbe sussistere senza un capo che comanda e dirige i sudditi verso il bene comune. Dio ha voluto la società, avendo creato l’uomo animale sociale, e perciò necessariamente ha voluto l’autorità, che procede da Dio. L’autorità, la cui missione è la salus populi suprema lex , ha, però, dei limiti. Il ruolo del potere e la sua ragion d’essere è di spingere ognuno verso il bene comune. “Se l’autorità fallisce questa missione perde non soltanto il diritto di comandare, ma la ragion d’essere” ([16]).
Perdita della legittimità
La Scolastica riteneva che l’abuso di potere fosse il caso principale di realizzazione di una tirannia: “Gli scolastici, da S. Tommaso a Suarez, non esitano a dire che la Nazione ha il diritto di destituire, di deporre, di cacciare il tiranno, poiché ha perso il diritto di regnare ed è diventato illegittimo. Ma bisogna che l’abuso sia grave, permanente e universale [...]. Secondo gli scolastici, il potere del principe decaduto ritorna al popolo o alla Nazione che glielo aveva affidato” ([17]).
La resistenza al tiranno
Nell’XI secolo, Manegold da Lautenbach ([18]) equiparava il principe-tiranno “ad un guardiano di porci; se il pastore, invece di far pascere i porci, li ruba, li uccide o li smarrisce, è giusto rifiutargli di pagargli il salario e scacciarlo ignominiosamente” ([19]). «In Manegoldo - scrive Padre Carlo Giacon - vi è tutta una teoria logicamente connessa [...] è legittima l’autorità che governa secondo la legge di Dio [...] e siccome il potere è nel re perché datogli immediatamente dal popolo [e mediatamente da Dio, nda] [...] per cui il popolo è obbligato ad ubbidire e i re a ben governare [...] se il re va contro la legge naturale e divina... da sé rinuncia al diritto di governare [...] giudicato come un pubblico nemico, è legittima la resistenza e la difesa contro di lui» ([20]). S. Tommaso nel De regimine principum insegna che, “se appartiene di diritto alla moltitudine di darsi un capo, essa può, senza ingiustizia, condannare il principe a disparire, o può mettere freno al suo potere se ne usa tirannicamente...” ([21]). Tuttavia per l’Angelico, «anche se alcuni insegnano essere lecita l’uccisione del tiranno per mano di un qualsiasi privato [...], è pericolosissimo permettere l’uccisione privata del tiranno, perché i malvagi si riterrebbero autorizzati a uccidere i re non tiranni, severi difensori della giustizia [...] contro i tiranni eccesivi e insopportabili si può agire solo in virtù di una pubblica autorità» ([22]). La stessa dottrina è insegnata da Bañez ([23]) Billuart ([24]) Bellarmino ([25]) Suarez ([26]). La tradizione scolastica è quasi unanime nel riconoscere il diritto di resistenza, che - in casi estremi - può giungere alla rivolta armata. Juan De Mariana opina che il tirannicidio sia lecito anche privata auctoritate, perché non è da condannarsi colui che, eseguendo la comune volontà, procura di sopprimere il tiranno ([27]). Tuttavia, per il Mariana, non significa che a ciò basti l’iniziativa semplicemente privata, occorre prima una condanna pubblica del tiranno e solo poi, come extrema ratio, l’esecuzione può essere privata, quando non si possa raggiungere l’autorità superiore; allora, fondandosi sulla condanna pubblica, senza un mandato esplicito del potere pubblico e solo con mandato interpretativo e presunto, si esegue il tirannicidio ([28]). Il cardinal Tommaso Zigliara scrive: “i soggetti possiedono il diritto di resistere passivamente, vale a dire di non obbedire alle leggi tiranniche... di resistere alla violenza del potere esecutivo, respingendo la violenza colla violenza, e questa è la resistenza difensiva” (Summa philosophica, tomo III, Lione, 1882, pagg. 266-267) ([29]) .
Conclusione/attualità
Come si vede questi princìpi si confanno alla situazione presente. Tasse smodate, non utilizzate per il bene comune della Nazione, ma indirettamente utilizzate per scopi contrari al diritto naturale e divino. I cittadini, specialmente la classe medio-bassa, vengono trattati più come schiavi che come uomini (il numero elevato di suicidi di persone che non arrivano più alla fine del mese perché oberate di tasse è impressionante). Ora in questo caso secondo S. Tommaso l’essenza della tirannide si esprime esattamente nei comandi rivolti dall’Autorità ai sudditi non in quanto soggetti della società bensì come schiavi (S. Th. , II-II, q. 64, a.1, ad 5um). Quindi ci si trova in uno stato di regime tirannico. Tuttavia se la dottrina cattolica ammette la reazione anche attiva a questo stato di cose in pratica occorre tenere ben presenti le condizioni esposte dagli Scolastici per non “mettere una pezza peggiore del buco” e cadere nel caos anarchico o nella guerra civile costante, che – data l’esasperazione dei cittadini tartassati – purtroppo stanno iniziando a prevalere in questi giorni, con episodi di violenza privata e spontanea, i quali pur se comprensibili, tuttavia, impediscono la reazione ben organizzata, ben concordata e ben condotta e favoriscono l’instaurazione di uno Stato di psico-polizia tributaria.
Di fronte ad un Leviatano così potente e quasi universale come è il potere mondialista odierno ci si sente quasi impotenti per reagire come si dovrebbe. Tuttavia ci resta un’arma che nessuno potrà mai strapparci: la preghiera che ottiene l’intervento della Onnipotenza divina infinitamente misericordiosa, ma anche infinitamente giusta e molto più esigente verso il potente che verso il debole.
d. CURZIO NITOGLIA
12 maggio 2012
 
 
[1]) Enciclica Sapientiae christianae, 10 gennaio 1890.
[2]) A. ODDONE, “La resistenza alle leggi ingiuste secondo la dottrina cattolica” in Civiltà cattolica, n.° 95, 1944, pp. 329-336; Ibid., n.° 96, 1945, pp. 81-89.
[3]) R. Pizzorni, Diritto naturale e diritto positivo, in S. Tommaso D’Aquino, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1999, p. 348.
[4]) De libero arbitrio, I, 5; PL, XXXII, 1227.
[5]) R. Pizzorni, op. cit., p. 352.
[6]) Ibidem, pp. 353-354.
[7]) Cfr. S. Th., I-II, q. 96, a. 4.
[8]) R. Pizzorni, op. cit., p. 358.
[9]) Ibidem, p. 359.
[10]) Ibidem, p. 360.
[11]) Ibidem, p. 361.
[12]) Ibidem, p. 365.
[13]) Ibidem, p. 369.
[14]) In Summ. Th., II-II, q. 64, a. 1, ad 3um.
[15]) De virtutibus, disput. XIII, sect. VIII, Opera omnia, éd. Vivès, t. XII, p. 759.
[16]) D. Th. C., vol. 29, col. 1952.
[17]) D. Th. C., vol. 29, col. 1962.
[18]) Cfr. O. Capitani, Papato e Impero nei secoli XI e XII, in «Storia delle idee politiche economico e sociali», diretto da L. Firpo, vol. 2°, tomo II, Il Medioevo, Torino, Utet, 1983; pp. 141-165.
[19]) Liber ad Gebehardum, cap. XXX.
[20]) C. Giacon, La seconda scolastica. I problemi giuridico-politici: Suarez, Bellarmino, Mariana, Milano, Bocca, 1950, vol. 3°, pp. 89-90.
[21]) De regimine principum, Lib. I, cap. 6.
[22]) C. Giacon, ibidem, p. 98.
[23]) In IIam-IIae, q. 64, a. 3, concl. 1, Opera, Salamanca, 1584-1612.
[24]) De jure et justitia, dissert. X, a.2, ad 3um, Liège, 1746-51.
[25]) De concil. auctorit., lib. II, cap. 19, Ingolstadt, 1586-1593.
[26]) Defensio fidei, lib. VI, cap. IV, §15, Colonia, 1614.
[27]) Cfr. De rege et de regis institutione, lib. I, cap. VI, p. 76, Toledo, 1599.
[28]) Cfr. C. Giacon, op. cit., pp. 271-272.
[29]) D. Th. C., vol. 29, col. 1670.
 
 
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