sabato 26 novembre 2011

i martiri inglesi: fedeli fino al sangue alla Santa Messa cattolica

"a Tyburn, un gran numero di nostri fratelli e sorelle morirono per la fede; la testimonianza della loro fedeltà sino alla fine fu ben più potente delle parole ispirate che molti di loro dissero prima di abbandonare ogni cosa al Signore. Nella nostra epoca, il prezzo da pagare per la fedeltà al Vangelo non è tanto quello di essere impiccati, affogati e squartati, ma spesso implica l’essere additati come irrilevanti, ridicolizzati o fatti segno di parodia. E tuttavia la Chiesa non si può esimere dal dovere di proclamare Cristo e il suo Vangelo" (Benedetto XVI)

Una bella riproduzione del patibolo (Tyburn tree-l’albero di Tyburn), divenuto l’albero
della vita: un altare su cui celebrare la Santa Messa (Tybur Convent, Londra).

Nel febbraio del 1601, al Tyburn, presso Londra due uomini venivano impiccati. Erano un certo Filcock e un tale conosciuto come Barkworth. L‘accusa era di tradimento perché sacerdoti. I due, infatti, erano preti cattolici e venivano condannati alla forca quali vittime dell’odio anglicano contro la fede cattolica. Poco prima di morire, padre Filcock ebbe ancora la forza di dire con gioia: «Questo è il giorno fatto dal Signore».
Padre Filcock e padre Barkworth erano solo due delle decine di martiri cattolici che sacrificavano l’esistenza da quando Enrico VIII nel 1534 si era staccato dalla Chiesa di Roma e si era autoproclamato capo dell’anglicanesimo: da quell’anno, fino al 1681, i martiri inglesi sono stati più di trecento: cinquanta uccisi sotto Enrico VIII, 189 sotto Elisabetta I e gli altri sotto i loro successori.
I primi furono un gruppo di Certosini che il 4 maggio e il 19 giugno 1535 immolarono la loro vita sulle forche del Tyburn per non aver voluto separarsi dalla Chiesa Cattolica. Vittime illustri di Enrico VIII furono il Cardinal Giovanni Fisher e Tommaso Moro, il Gran Cancelliere del regno, che pagarono con il supremo sacrificio di sé il loro rifiuto alla “supremazia” imposta dal re.
L’opera di Cranmer

Il “simpatico marchingegno” per eliminare gli odiati papisti: il “Tyburn tree”, l’albero di Tyburn,
presso Londra. In basso, una stampa che rappresenta lo squartamento di un condannato.
Dal 1533, era diventato primo arcivescovo anglicano di Canterbury, Thomas Cranmer (1489-1556), il quale odiava la Messa come un nemico vivente e negava la dottrina della transustanziazione e della presenza reale di Gesù e l’offerta sacrificale del Salvatore fatta dal sacerdote per la salvezza del mondo. Sotto il regno del giovanissimo re Edoardo VI, Cranmer si mosse in modo subdolo e determinato verso l’eliminazione totale del Santo Sacrificio della Messa, pubblicando nel 1549 il primo Book of common prayer, un testo ambiguo indirizzato a trasformare la Messa nella cena protestante, fatto che sarà evidentissimo con il secondo Book of common prayer nel 1552. La “nuova liturgia”, vera negazione della Santa Messa cattolica, avrebbe dovuto sradicare il Cattolicesimo inglese che affondava le sue salde radici nei primi secoli dell’era cristiana. Purtroppo la tristissima operazione era destinata in gran parte al successo. Con l’ascesa al trono di Elisabetta I, nel 1559, con l’Atto di Uniformità, fu proibita la Messa cattolica (detta “la Messa papista!”) e furono imposte agli inglesi le eresie luterane e calviniste e venne proclamato che il Cattolicesimo era stato solo un coacervo di invenzioni idolatriche. Con implacabile odio anticattolico Elisabetta rese obbligatorio, sotto gravissime pene, la partecipazione al nuovo culto anglicano stabilito da Cranmer. Ciò significava la più grande disgrazia per i Cattolici: non poter più partecipare al Sacrificio del Signore e alimentarsi di Lui, vittima immolata al Padre per la salvezza del mondo. I Vescovi “recusanti”, ancora fedeli a Roma, furono sostituiti con altri più docili alla regina, mentre sempre più numerosi sacerdoti e fedeli finirono in carcere, presto destinati al patibolo. Iniziava così l’era dei martiri d’Inghilterra e il sangue dei cattolici prese a bagnare il suolo britannico. Nel 1568, il futuro Cardinale Guglielmo Allen (1532-1594) aveva fondato a Douai, poi a Reims, in Francia, un Seminario per la formazione di giovani sacerdoti da inviare nella loro patria, l’Inghilterra, a convertire gli anglicani. Allo stesso modo, nel 1578, il Collegio Inglese di Roma, auspice sempre l’Allen, fu trasformato in Seminario per il medesimo fine.
Seminarium Martyrum
I sacerdoti formati in questi Seminari, nelle Congregazioni e negli Ordini religiosi, in primo luogo nella giovane Compagnia di Gesù, fondata da Sant’Ignazio di Loyola, imbarcandosi per l’Inghilterra, già sapevano che cosa li aspettava, a volte allo stesso approdo e dopo pochi mesi di apostolato clandestino: il martirio nel modo più atroce. Il Collegio Inglese di Roma si meritò presto il titolo glorioso di Seminarium Martyrum, Seminario dei martiri. La strada che portava da Roma a Reims e alla terra inglese, diventò “la strada del martirio”. Elisabetta I odiava soprattutto questi preti, rotti a tutte le fatiche, pronti ad immolare la loro giovinezza per assicurare ai Cattolici inglesi il tesoro più sublime che è il Santo Sacrificio della Messa. Primo martire fra loro, fu padre Cutberto Mayne, scoperto nel 1577 e impiccato il 30 novembre dello stesso anno. Impossibile scrivere tutti i nomi santi di costoro: viaggiavano in tutte le parti del Regno, predicando, confessando, celebrando la Messa nelle case dei cattolici dove si davano appuntamento gruppi di fedeli altrettanto eroici. Quando la Messa veniva celebrata, i fedeli trovavano la forza di affrontare qualsiasi difficoltà, anche le torture più atroci, se erano scoperti insieme ai loro sacerdoti.
Intanto, Elisabetta I mobilitava spie e sgherri a caccia dei “papisti”, colpevoli di un solo grande delitto: di essere sacerdoti e di offrire il Santo Sacrificio della Messa; oppure, se laici, di rimanere cattolici e di partecipare al medesimo Sacrificio. Tra questi martiri, risplende di singolare grandezza il giovane gesuita Edmond Campion, che poté raccogliere qualche frutto della sua opera e inviare una lettera alla regina, documento conosciuto come “La provocazione di Campion”, in cui smentiva la calunnia rivolta ai preti cattolici di essere traditori dello Stato e affermava la loro missione sacerdotale. “Sappiate che noi tutti Gesuiti abbiamo stretta un’alleanza per portare con gioia quella croce che voi ci imporrete e per non disperare mai della vostra conversione, finché ci sarà solo uno di noi per godere le gioie del vostro Tyburn o per sopportare i tormenti delle vostre torture nelle vostre prigioni”. Padre Campion salirà al patibolo il 1° dicembre 1581.
In odio alla Messa
Patibolo per i Cristiani fedeli alla Messa di sempre…
Anche i fedeli che aiutavano i sacerdoti erano destinati alla morte, come, per citare un solo nome, capitò a Margherita Cliterow, che pagò con la morte più atroce la sua ospitalità ai ministri di Dio. Gli editti di persecuzione si moltiplicarono. Nel 1585, la regina stabilì che qualsiasi uomo nato in Inghilterra era reo di alto tradimento, se dopo aver ricevuto l’ordinazione sacerdotale in un altro Paese, rimetteva piede sul suolo inglese. La pena era di essere impiccato, poi estorto e squartato ancora vivo. Questo per privare sempre più i Cattolici della Santa Messa. I primi a soffrire per la nuova legge furono il padre Hug Taylor e il laico Marmaduke Bowes, uccisi il 27 novembre 1585 a York. La persecuzione di Elisabetta contro i cattolici proseguì fino alla sua morte, avvenuta nel 1603.
L’era dei martiri però non finì. Sotto re Giacomo I (1604-1618), morirono in venticinque. Ventiquattro sotto Carlo I (1628- 1646). Venticinque sotto Carlo II (1678- 1681), in base alla legge del 1585. Il più illustre in questo periodo è il padre Giovanni Ogilvie, gesuita scozzese, impiccato a Glasgow nel 1615 a 35 anni. Proclamata la repubblica (1646), Olivier Cromwell che odiava la Messa e il sacerdozio cattolico, pose una taglia sulla testa di ogni sacerdote uguale a quella per acchiappare un lupo: dall’Irlanda cattolica che non aveva mai accettato lo scisma e l’eresia di Enrico VIII, molti preti furono deportati come schiavi nelle isole Barbados e molte proprietà dei Cattolici furono confiscate. Anche in Irlanda, la persecuzione mirava ad estirpare la fede cattolica, estinguendo in essa la presenza del Signore Gesù nell’Eucaristia. L’ultima vittima fu l’Arcivescovo Primate d’Irlanda, Mons. Olivier Plumkett, giustiziato a Londra l’11 luglio 1681. La maggior parte di questi martiri, sacrificati non solo in odium fidei, ma anche in odium Missae, sono stati elevati alla gloria degli altari dai Pontefici, da Leone XIII a Giovanni Paolo II. Alla loro epopea, Robert Benson (1871-1914), convertito dall’anglicanesimo e diventato sacerdote cattolico, anche per il sostegno di Papa San Pio X, dedicò la sua stupenda opera Con quale autorità?, in cui scrive commosso: «Era la Santa Messa che il governo inglese considerava un delitto ed era per la Messa che creature di carne e ossa erano pronte a morire. Era per la Messa che il cattolico perseguitato possedeva una così profonda vita spirituale da superare ogni difficoltà, l’anima di questa vita era la Messa». Un secolo dopo, nel suo aureo libro La Messa strapazzata (1760), Sant’alfonso Maria de’ Liguori avrebbe scritto che «abolire la Messa è l’opera dell’anticristo», mentre i martiri inglesi, forse i più eucaristici di tutta la Chiesa, con il loro sangue stanno a testimoniare per noi oggi, che la Messa dev’essere la nostra vita. La Messa è il perenne Sacrificio di adorazione a Dio e di espiazione dei peccati, è il dono che ci ha lasciato Gesù nostro Redentore, affinché abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza (cf Gv 10,10), e sappiamo giungere, se occorre, sino al martirio, per affrettare un’autentica primavera di santità nella Chiesa e nel mondo d’oggi.
Tratto da: Paolo Risso, Fiaccole nella notte, Edizioni l’Amore Misericordioso, 2009


 

mercoledì 23 novembre 2011

what in God's name........? La faccia di Van Rompuy non cela la sorpresa di fronte alla verità

EURO - DISASTER

 

Nigel Farage,  con una forza degna di nuovo Churchill, dice la verità al Parlamento Europeo
Per chi conosce l'inglese



Ferrara ne da la traduzione ommetendo l'invocazione "in nome di Dio"


Nigel Farage: “Bene, eccoci qui, sulla soglia di un disastro finanziario e sociale, e in questa sala, oggi, abbiamo i 4 uomini che dovrebbero ritenersi responsabili.
Eppure abbiamo ascoltato i discorsi più tediosi e tecnocratici mai sentiti e continuate ancora a negare, a dispetto di ogni considerazione obbiettiva, che l’euro sia un fallimento.
E chi è l’effettivo responsabile?
Chi è responsabile fra di voi?
Ovviamente la risposta è ‘NESSUNO DI VOI’, perchè nessuno di voi è stato eletto, nessuno di voi ha in effetti qualsivoglia legittimità democratica per ricoprire i ruoli di cui siete attualmente incaricati all’interno di questa crisi. E in questo ‘vuoto’ stato di cose, non di certo con riluttanza, è entrata Angela Merkel. E stiamo ora vivendo, stiamo ora vivendo in un Europa dominata dalla Germania. Questione a cui il progetto europeo avrebbe dovuto, in effetti, mettere fine. Questione per cui coloro che ci hanno preceduto hanno pagato caro, con le loro vite, al fine di evitarla. Io non voglio vivere in un Europa dominata dalla Germania, né lo vogliono i cittadini europei.
Ma voi Signori avete giocato un ruolo in questi eventi, perchè quando il Signor Papandreou si è fatto avanti pronunciando il termine ‘Referendum’, o quando lei Signor Rehn, lo ha descritto come un ‘abuso di fiducia’, e i vostri amici qui si son riuniti, come un branco di iene, per scagliarsi su Papandreou, l’avete fatto rimuovere e l’avete sostituito con un governo
fantoccio.
E’ stato uno spettacolo assolutamente disgustoso.
E non soddisfatti da ciò, avete deciso che anche Berlusconi dovesse andarsene. Così lui è stato rimosso e sostituito dal Signor Monti, un ex commissario europeo, un ‘fratello architetto’ di questo euro-disastro e un uomo che non era nemmeno un membro del Parlamento.
Sta diventando un racconto alla Agatha Christie, dove stiamo cercando di capire chi sarà la prossima vittima ad essere fatta fuori.
La differenza è che sappiamo chi sono i criminali.
Voi dovreste essere tutti ritenuti responsabili per ciò che avete fatto. Dovreste essere tutti licenziati.
E… devo dire, Signor Van Rompuy, 18 mesi fa, quando ci siamo incontrati per la prima volta, mi sono sbagliato sul suo conto… Avevo detto che sarebbe stato un assassino ‘silenzioso’ della democrazia degli stati-nazione, ma non è più silenzioso, lei è piuttosto rumoroso a proposito, non è così? Lei, un uomo NON eletto, si è recato in Italia dicendo: “L’Italia ha bisogno di riforme, non di elezioni!”
CHE COSA, IN NOME DI DIO, LE DA IL DIRITTO DI DIRE CIO’ AL POPOLO ITALIANO?”

Aggiungiamo noi: chi ha autorizzato coloro che hanno appena celebrato il 150° anniversario dell'Unità d'Italia e che si riempono la bocca ancora oggi di Indipendenza e Resistenza, a consegnarci legati mani e piedi ai tedeschi?
Chi?!



martedì 22 novembre 2011

la resistenza paga

Apprendiamo da Rorate Caeli la notizia della conclusione, anche se non ottimale, dell'affare Thiberville: sembra quasi che oltralpe si siamo ispirati alla scelta illuminata fatta a suo tempo da Mons. Renato Corti, Vescovo di Novara, di permettere che la Tradizione potesse continuare nella piccola chiesa di Vocogno (posta a poca distanza da Santa Maria Maggiore dove don Alberto Secci ora a Vogogno era Parroco). Ecco la traduzione della notizia e il video dei Vespri cantati in occasione della Festa di Santa Caterina, titolare della chiesa di Vocogno.


 Una piccola chiesa in un piccolo villaggio - ma solo un paio di km a sud ovest della sua chiesa parrocchiale. Padre Michel, l'eroe di Thiberville, diventerà rettore della chiesa più piccola nella sua diocesi, a Le Planquay (5 km da Thiberville , Normandia). La sua resistenza ha pagato -  benché non sia una soluzione perfetta, l'intervento diretto della Congregazione per il Clero, attraverso il suo mediatore designato, il Vescovo Mons. Boulanger, di Bayeux / Lisieux), ha assicurato che l'ordinario del luogo, Mons. Nourrichard,, non  avrebbe potuto tenere Padre Michel a più che una breve distanza dal suo gregge caro.

E' più  facile a dirsi che a farsi, lo sappiamo, ma noi continuiamo a credere che i preti che non hanno nulla da nascondere non devono temere ritorsioni per la loro scelta per Tradizione: un vescovo ostile può fare solo qualche danno ( Fonte: Perepiscopus ).

segni dei tempi....

Vittoria della Messa a Birmingham

A causa della riduzione del numero di sacerdoti, l’Oratorio di Birmingham ha annunciato un cambiamento di orario per la domenica con la soppressione di alcune Messe.
Questa era la scelta dei padri: o cancellare la Messa in latino, o cancellare la Messa di Paolo VI.
Che cosa hanno deciso? I padri dell’Oratorio, d’accordo con l’arcidiocesi, hanno scelto di cancellare... la Messa nuova!
La ragione di questa scelta? Il numero dei fedeli che vanno alla Messa tradizionale è così grosso che non si può più cancellare!

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Intanto pubblichiamo una bella riproduzione di come sarà il nuovo Seminario della Fraternità San Pio X negli Stati Uniti d'America; sorgerà precisamente a Buckingham in Virginia e sarà intitolato a San Tommaso d'Aquino: si tratta del più grande seminario cattolico costruito negli Stati Uniti in quasi un secolo. Sarà un segno dei tempi anche questo o no?


lunedì 21 novembre 2011

" Ancora a margine del funerale negato un bell'intervento di Satiricus: "Detronizzate la realtà, la logica e la verità. Deposte la carità e la legittima autorità. Restiamo noi in balìa degli omini di burro delle curie"

I paladini cattolici dell’ecumenismo vogliono l’unità tra le Chiese, ma spesso non vogliono l’unità nella Chiesa. Desiderano abbracciare tutti, ma “fuori”, mentre scomunicano lanciando l’interdetto: “conservatore!”, “integrista!” quelli di “dentro” che non gli stanno simpatici.

Louis Bouyer

Gnocchi, la messa negata: 6 riflessioni in margine.

Pubblicato il novembre 21, 2011

Esequie tradizionali


Esequie moderne

 
Interrompo la letargite – che in realtà è un silenzio causato dal sormontare di troppi impegni in poco tempo, e dalla forza zero di aggiornare il blog – stimolato dal fatto tristissimo e recente destinato a passare alla storia della Chiesa come il “Caso Gnocchi”: quando un parroco di provincia nega le esequie a un defunto, causa la cattolicità del defunto che eccede gli ideologismi della canonica. La vicenda è nota e per le fonti rimando all’articolo di cronaca pubblicato su Riscossa Cristiana.
A me piacerebbe fare 6 brevi appunti in margine al “Caso” e all’articolo, per vedere se siamo già arrivati al tragico “in Ecclesia nulla salus” o se facciamo in tempo a scamparlo.
*
Ma, prima di tutto, per i meno aggiornati dobbiamo fare un salto indietro di qualche anno, fino a quel fatidico 7 luglio 2007 in cui
il Papa felicemente e faticosamente regnante ha scritto di sua iniziativa, in totale libertà e in pieno possesso delle sue facoltà mentali, che un cattolico può eccome chiedere e ottenere un rito funebre che è ancora pienamente legittimo nella Chiesa, e che nella Chiesa è stato utilizzato per accompagnare al camposanto milioni di fedeli per centinaia di anni. Il Motu Proprio Summorum Pontificum non lascia scampo ad alcuna interpretazione di segno opposto.
Meglio, il papa ha scritto che qualsiasi prete può celebrare nel rito tradizionale (tecnicamente: nella forma extraordinaria dell’unico rito latino), e che gruppi di almeno 30 fedeli possono richiedere una messa stabile nella medesima forma del rito, etc. Per i dettagli rimando direttamente al Summorum Pontificum, e al successivo Universae Ecclesiae – 30 aprile 2011 – che ne precisa le condizioni di attuazione.
Da allora si è smascherata una falla di sistema nel mondo cattolico, per cui è stato facile vedere chi fosse realmente fedele al papa e al cattolicesimo, e chi invece ritenesse, e ritenga, di poterne realizzare una versione fai-da-te, basata su disinformazione e pressing psicologico, prima sui preti e poi sui laici. Il tutto in nome dell’ideologia vaticanosecondista brillantemente burlata proprio da Gnocchi&Palmaro nel recente La bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Editore Vallecchi 2011.
La situazione francamente imbarazzante dell’era post-motu-proprio (anno V del Summorum) si tocca con mano leggendo che
il parroco non poteva essere toccato dal documento del Santo Padre dato che, candidamente, ha confessato di non conoscerlo. Così come non era al corrente del fatto che il testo applicativo del Motu proprio, l’istruzione Universae Ecclesiae, in simili casi invita il parroco a lasciarsi «guidare da zelo pastorale e da uno spirito di generosa accoglienza».
Chiaramente dell’ignoranza del clero dovremmo chieder conto ai debiti formatori, e il cerchio è presto chiuso. Però su questo non mi dilungo.
Veniamo ai 6 brevi appunti, emersi dalla lettura dell’articolo: 6 agghiaccianti strabismi.
Primo strabismo: l’ideale soppianta il reale
Il primo conflitto a emergere dalla cronaca è uno sguaiato cambio di prospettive. Se di regola la realtà si offre come base a partire dalla quale proporre con sobrietà ideali di miglioramento e perfezionamento, dalla testimonianza del don Abbondio bergamasco scopriamo che oggi le cose viaggiano alla rovescia. La realtà sparisce dall’orizzonte mentre ci viene propinato con insistenza un nuovo mondo virtuale, un mondo fatto di ideali partoriti da non-si-sa-bene-chi, il quale così – fieramente sprezzanti delle più banali regole di logica minor – pretende di edificare le uniche nuove verità in cui incubare i docili christifideles laici, o almeno i pochi rimasti. Stalin prenda nota:
Ma, quando i problemi si sono manifestati in tutta la loro evidenza, ha tentato di dare veste teologica al sopruso con quanto gli hanno messo in testa in seminario sostenendo testualmente la seguente tesi: “Se ci fosse stata la richiesta, per esempio, di un rito bizantino, allora, in virtù dell’ecumenismo, si sarebbe fatto. Perché, in quel caso, io con il mio rito incontro te con il tuo rito e ci arricchiamo a vicenda. Ma voi chiedete un rito della Chiesa cattolica e siccome non concorda con lo stile celebrativo della comunità si può dire di no”. A questo proposito, va detto che lo “stile celebrativo” della comunità in oggetto, in materia di funerali, ha toccato uno dei suoi vertici con l’esecuzione di “C’è un grande prato verde dove nascono speranze” accompagnata dalle chitarre.
In questo modo guastiamo in principio quanto di buono si potrebbe trovare nell’ideale, che non ha mai alcun senso al di fuori di un regime di realtà. Vale anche per la delicata faccenda dell’ecumenismo, quel poco di buono che esso aveva da darci sprofonda nell’assenza di ogni fondamento valido: come a dire, non per nulla viviamo nel cosiddetto “inverno ecumenico” (Kasper) – cosa che può rallegrare parecchi vecchio-realisti.
Ma soprattutto qui perdiamo il reale in se stesso, e allora non veniamo poi a stupirci se la gente dotata più di buon senso che di spirito di sacrificio diserta messe e dintorni – e questo nonostante l’allettante offerta di brani da Top Ten che i liturgisti alla moda sbandierano. Procedamus.
Secondo strabismo: l’opinione zittisce il Magistero
La seconda freddura potrebbe intitolarsi: il tracollo della verità. In questo caso non si invertono reale e ideale, bensì si commuta l’ordine degli asserti. Ora, se è vero che mutando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, è più vero che qui non si tratta di somme ma di ragionamenti logici, appunto quei ragionamenti che ci portano dalla conoscenza meno nota a quella più nota e così via fino alla verità. Ma forse il pretame medio preferisce dedicarsi a forme di conoscenza – come dire? – sommaria (peraltro in perfetto disdegno della Summa Th). In questa zuppa la verità fa la fine dell’ospite indesiderato, e il suo posto viene subito riempito da una pletora di qualunquismi subito dogmatizzati. È così che al fedele dabbene – quello cui piace Mario Monti, se tanto mi dà tanto – capita di vedersi pressoché imposti dalle bianche agenzie di informazione a senso unico opinionismi patenti travestiti da neo-dogmi vincolanti.
In questa tristissima storia c’è un lato grottesco e insieme paradossale: il dispregio dimostrato dal clero interpellato nei confronti dell’autonomia del singolo. A partire dal 2008,la Conferenza EpiscopaleItaliana ha “aperto” la strada – per voce del suo autorevole presidente – alle cosiddette “Dichiarazioni Anticipate di Trattamento”, le ormai famose DAT: un documento scritto nel quale la persone dice quali trattamenti sanitari intende o non intende ricevere, qualora cada in stato di incoscienza. A noi (e anche al direttore di questo giornale) queste DAT non piacciono, perché offrono un comodo scivolo alla cultura eutanasica. Ma ai fini del nostro ragionamento, la “svolta” della Cei sulle DAT serve a dimostrare che nella cultura contemporanea tutti – ela Chiesastessa – riconoscono un valore molto importante alla volontà espressa da ogni singola persona. Questa volontà non può essere arbitraria, ma se è conforme al bene deve essere assecondata.
Ora, il paradosso del “caso Gnocchi” sta in questo fatto: se un fedele chiede, attraverso la voce di suo figlio, un funerale secondo il rito tridentino, non viene esaudito. Se invece redige le DAT rifiutando magari certe cure, agisce in conformità alla Conferenza Episcopale Italiana. Che cosa deve fare, allora, un cattolico, per ottenere quello che il Papa ha stabilito come suo pieno diritto? Forse deve chiedere le esequie in forma antica redigendo le DAT e consegnandole al parroco finché è in grado di farlo.
Per carità, l’aggancio è letterario, se si vuole, ma il messaggio di fondo passa lo stesso: dove l’opinione è sovrana, la verità ha già fatto le valigie da un pezzo.
Terzo strabismo: l’indefinito offusca le certezze
Il processo di cappottamento esistenziale – una volta de-ontologicizzato il reale e de-razionalizzata la verità – non può se non precipitare nello schiavismo dei proclama. E, si noti bene, sono tutti proclama mendicati fuori dal suolo cattolico. “Libertà”, “autonomia”, “dialogo”, “uguaglianza”, “accoglienza”, “straniero” e chi più ne ha più ne metta (e chi non ne ha più si rivolga a Fratelenzo Bose che ne ha magazzini e magazzini stipati). Ora, già è difficile uscire indenni dagli eccessi germinati in casa propria, figuriamoci che ne viene quando si corre alla cieca dietro gli errori altrui. Appunto, che ne viene? Il minimo è che non sappiamo neppure cosa fare di certi slogan. Il peggio è che li usiamo a beneficio sempre e solo degli altri – di quegli “altri” che li coniarono a loro pro. In mezzo ci finiscono i “nostri”, a patire tutte le contraddizioni e le ingiustizie della situazione.
Questi sacerdoti si riempiono il cervello e la bocca di parole come “libertà” e come “autonomia”, e poi non sono in grado di opporsi al palese sopruso ordinato dall’alto perché “in curia mi hanno detto…”. Si riempiono il cervello e la bocca di parole come “libertà” e “autonomia”, denigrano un passato a loro dire prepotente e clericale e poi si prestano a calpestare la volontà di un morto e della sua famiglia, quella della Chiesa e del Santo Padre perché “in curia mi hanno detto…”.
E buona notte a qualsiasi certezza. Perché quando si costruisce su principi non ben definiti, in odio alle definizioni del cattolicesimo classico, e in vagheggiamento di qualsiasi vento di dottrina un poco nuovo, tutto si fa opaco e non si capisce più che strada prendere. Generalmente a questo punto si va per la tangente.
Quarto strabismo: il buonismo vanifica la carità
Se i primi tre strabismi hanno toccato la parte teorica del credere, gli ultimi tre ne mostrano gli effetti pratici. Il primo è l’intorbidamento della carità. Fuori da criteri certi, ben ordinati, e saldamenti ancorati al reale, qualsiasi desiderio di fare del bene è costretto presto o tardi ad arenarsi su sterili manifesti di buonismo. Ma al nostro prossimo non serve buonismo di sorta, gli serve la carità di Cristo, che si trova pienamente nel cattolicesimo di sempre. Punto. Ah, dimenticavo: il buonismo non è mai un bene in sé.
Eppure don Diego, al primo incontro, aveva espresso una considerazione di assoluto buon senso e di naturale umanità: “Credo che davanti alla morte e per un funerale non ci siano problemi”. Ma, quando i problemi si sono manifestati in tutta la loro evidenza…
Così, anche nella bianca terra bergamasca, il parroco raccoglie una richiesta dei suoi fedeli, la trasmette al vicario generale, il vicario generale si confronta con chi ritiene opportuno, poi, in nome e per conto del vescovo decide come agire e il parroco esegue. E, se si fa notare all’esecutore materiale la palese ingiustizia a cui si sta prestando, rispunta la solita spiegazione: “In curia mi hanno detto…”.
Quinto strabismo: il servo al potere tradisce il padrone in servizio
A livello un po’ più alto scatta il patatrac. Volta la carta e scopri il puzzo di interessi che forse era meglio ignorare. Scopri cioè che il fallimento di tanti ideali, buonismi, slogan e quant’altro non è nemmeno dovuto a un inceppo logico nascosto chissà dove, ma piuttosto nasce da una malizia depositata alla radice della pianta. Scopri che è in atto uno scontro di potere tra fazioni dalla tempra più federalista di quella bossiana, roba che il senatùr c’avrebbe solo da imparare come si fa. Se per secoli la dottrina politica della Chiesa ha sviluppato l’idea di un potere e di una autorità che agisse sì con forza, ma al solo scopo di salvaguardare la sana unità dei cattolici in Cristo; ecco che ora s’innalza lo spettro di una ben diversa moda. Le diocesi rivendicano autonomia e potere, e sentono Roma come minaccia.
Da troppo tempo, nella diocesi di Bergamo, come in grandissima parte delle diocesi dell’Orbe cattolico, comanda dispoticamente l’autorità più prossima, quella che mette paura perché minaccia di intervenire direttamente sulle persone. Roma, che sarebbe l’autorità suprema, non conta nulla.
Nel “caso-Gnocchi”, il parroco è stato raggiunto tempestivamente da una telefonata dell’ Ecclesia Dei, organismo istituito in Vaticano per occuparsi della spinosa materia. Una volta di diceva: Roma locuta, causa soluta. E invece non è bastato l’intervento telefonico dal Vaticano a sgomberare il campo dagli ostacoli opposti alla celebrazione del funerale vecchio stampo: i motivi pastorali, la volontà del vicario episcopale, e via cavillando in un crescendo ben più intricato del latinorum di don Abbondio. Dove si vede un ulteriore paradosso della Chiesa post conciliare: le diocesi agiscono in una sorta di semifederalismo dottrinale e gerarchico, nel quale Roma non comanda più. E dove un qualunque prete di provincia conta di più della Commissione Pontificia Ecclesia Dei.
Adesso si capisce come mai il fallimento di idee quali “servizio”, “comunità”, “conciliarità”, “accoglienza” e simili panettoni, perché essi han solo fatto da maschera a desideri più profondi e inconfessati: “indipendenza”, “autogestione”, “controllo”, etc. Insomma, una volta congedato il potere a beneficio dei molti e a tutela dei più deboli, spalanchiamo le porte ai servetti che amano spadroneggiare in nome della diaconia. Si dice: “Quando il gatto non c’è…”, ma appunto qui sta il misfatto: il gatto c’è e fa quel che può. Ma è chiaro che i motu proprio felini non piacciono nella terra del papa buono e oltre.
Sesto strabismo: il paternalismo ha cacciato il Padre
Infine restiamo noi. Detronizzate la realtà, la logica e la verità. Deposte la carità e la legittima autorità. Restiamo noi in balìa degli omini di burro delle curie. Parroci sorridenti che si trasformano in arpie se gli tocchi i loro miti (tra i quali a volte non figura nemmanco il Cristo – almeno non quello dei Concili e dei dogmi cattolici). Macchiette del perfetto post-bolscevismo le quali sanno cosa è bene per te, prima ancora che te ne sorga il bisogno. Per te è bene il vaticanosecondismo.
Naturalmente, su tutti i colloqui con il parroco aleggiava lo spirito del Vaticano II e la consegna di difenderlo a oltranza inculcata nell’animo dei poveri sacerdoti formati in questi decenni: “Perché voi dovete sapere che il Vaticano II…”, “Non vorrete mettere in dubbio il Vaticano II…”, “Dovete capire chela Chiesa, a partire dal Vaticano II…”, eccetera, eccetera.
E allora perché stupirsi dell’apostasia mica tanto silenziosa della Chiesa post-conciliare? La gente chiede il Padre, e gli propinano i paternalismi delle ideologie conciliari. Una super carità, però non tanto caritatevole con la tradizione; un super servizio, però non tanto docile al papa; un super dialogo, però non tanto chiaro con i riti di sempre. E la solfa continua, tutta uguale. E poi coinvolgimento dei laici, sì, ma solo dopo avergli ostruito tutta una serie di esperienze ed occasioni.
Perché la vera ragione pastorale del divieto l’ha spiegata bene don Diego: “Sela Messaviene concessa qui, poi bisogna concederla anche dalle altre parti”. Insomma, bisogna evitare il contagio. Ma mio padre, anche se non ha compiuto l’ultimo viaggio con la sua Messa, continua a essere contagioso: si chiama Vittorino Gnocchi e sono orgoglioso di lui.
Orwell sorride, ma anche Chiappino. Perché poi la gente si stufa di ricevere carezzine e mezze-verità; e purtroppo spesso preferisce andarsene altrove; e buona notte alla salus animarum prima preoccupazione della Chiesa.
Conclusione
“In Ecclesia nulla salus?” È la nuova domanda che mi porto appresso, chiaramente in modo retorico, essendo egualmente allergico ai due termini allitteranti “sedevacantismo” e “vaticanosecondismo”.
Una domanda cui si affiancano le scene dei funerali del Sic, dove la dottrina lascia spazio a possibili fenomeni di channelling, con le moto da corsa a surrogare la vita dello sportivo, «una alla destra e una alla sinistra» del feretro mondanizzato; il prete accondiscendente in nome del “dialogo” e della “accoglienza”; la curia agiata nelle sue bambagie; e migliaia di fedeli a salutare il transito della morte in ottemperanza a loro più prossimo maestro, Steve Jobs probabilmente.

Caro Gnocchi, lei si consoli, papà certo ora vive la gloria del Paradiso, e quella non c’è ideologia né diocesi che possa cambiarla. Intanto preghiamo perché Qualcuno cambi le ideologie e le diocesi, e chissà che proprio papà non interceda meglio da lassù.