giovedì 20 ottobre 2011

fine dell'oblio

Maestro in Sacerdozio, maestro nella fede, colui che ha salvato la Messa di sempre...


Il vero volto di Mons. Lefebvre

Monsignor Marcel Lefebvre è nato il 29 novembre 1905 a Tourcoing (Nord della Francia) ed è morto a Martigny (Vallese, Svizzera) il 25 marzo 1991. Arcivescovo cattolico di Dakar e delegato apostolico per l’Africa francese, sarà nominato vescovo di Tulle nel 1962, poi superiore generale della Congregazione dello Spirito Santo. Grande figura fra i rappresentanti dell’opposizione al Concilio Vaticano II, nel 1970 fonda la Fraternità Sacerdotale San Pio X con lo scopo di preservare il sacerdozio cattolico.

 
Ad un anno di distanza dal primo volume "Mons. Marcel Lefebvre: nel nome della verità", la nota scrittrice cattolica Cristina Siccardi torna ad affrontare la figura del vescovo francese fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Già questo fatto dimostra chiaramente il notevole aumento d'interesse nei confronti di questo personaggio, controverso e discusso, che ha lasciato però un messaggio quanto mai attuale, proprio in questo tempo in cui sempre più voci si levano ad analizzare in modo nuovo, ed anticonformista, il grande fenomeno ecclesiale del Concilio Vaticano II.
In questo secondo volume l'autrice intende approfondire soprattutto la spiritualità e la dottrina di mons. Lefebvre, evidenziandone il profondo attaccamento alla Chiesa ed alla sua bimillenaria tradizione.

Innanzitutto va rilevato come il lavoro risulti estremamente ben documentato. Esso si basa infatti sulla diretta consultazione di manoscritti, in gran parte inediti, custoditi presso il seminario di Ècône. E proprio osservando attentamente tali manoscritti la Siccardi non trascura anche un'analisi grafologica dei documenti.

"Osservando ed esaminando la calligrafia di Monsignor Lefebvre possiamo comprenderne la trasparente e forte personalità. Scrittura di corpo medio, ordinatissima, facilmente leggibile e regolarmente allineata. Il foglio non è riempito, vengono lasciate parti bianche, dando un senso armonico allo spazio occupato; le lettere sono strette, più alte che larghe, semplici ed essenziali, unite fra di loro e sono vicine le une alle altre" (pp.11-12).

Questi elementi, unitamente ai contenuti ed alle notizie biografiche, contribuiscono alla ricostruzione della personalità dell'arcivescovo.

"Tutto ciò esprime una personalità raffinata ed elegante, pur nell'umiltà e nella sobrietà. Temperamento energico, da leader, testardo e persuasivo, come di chi sa farsi valere senza alzare il tono; insomma, autorevole e non autoritario; generosissimo e capace di soffrire in silenzio, propenso ad apprezzare la stima e l'affetto. Immediato, intuitivo e lungimirante, ricco di iniziativa e capace di prendere decisioni, sapendo coinvolgere i collaboratori" (p.12).

Un'altra caratteristica importantissima della sua personalità era senz'altro quella dell'organizzatore. Sotto questo aspetto mons. Lefebvre differisce e sovrasta di gran lunga gli altri esponenti del tradizionalismo cattolico, magari dottissimi ed eruditi, ma dotati di poco senso pratico. La sua innata capacità di coinvolgere i giovani e di formarli in uno spirito di azione autenticamente cristiano, rifuggiva sia dal settarismo, sia dal compromesso in materia di Fede e morale.
Questo fu probabilmente il segreto che preservò, e continua a preservare, la Fraternità San Pio X, dalla polverizzazione di altri movimenti, pur avendo dovuto affrontare circostanze storiche difficilissime ed estremamente pesanti.

Scorrendo le dense pagine del volume ci si rende ben conto di quale fosse la specifica e più autentica vocazione del prelato. Così la riassume Cristina Siccardi:

"Due furono le vocazioni di Monsignor Marcel Lefebvre: la prima, quella maturata fin dalla più tenera età, ovvero diventare sacerdote. La seconda: formare santi sacerdoti, mantenendo la filosofia cattolica e la teologia di san Tommaso d'Aquino…" (p. 9).



E i capitoli del libro non fanno altro che ripercorrere ed approfondire tale percorso. Il sacerdote è un «Alter Christus», il suo compito principale è quello di santificare i fratelli attraverso la celebrazione della S. Messa e la dispensa dei sacramenti. Egli deve essere necessariamente tutto di Dio e quindi non si possono conciliare con il suo ruolo né il matrimonio, né l'eccessiva dipendenza dai beni di questo mondo. Molto significativi, in tal senso, i capitoli intitolati: "Dio non ha bisogno di suonatori di mandolino" (pag. 38), "Il significato profondo della talare" (pag. 72) e "Sacerdos in aeternum" (pag. 86).

Un altro punto centrale del messaggio di mons. Lefebvre è quindi senz'altro la critica al principio della libertà religiosa enunciato dalla dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae".
Nel libro di Cristina Siccardi vengono riportate in proposito numerose dichiarazioni e scritti risalenti essenzialmente agli anni '70 e '80. Ecco un breve esempio che si collega al principio che mons. Lefebvre non si stancò mai di proclamare: la regalità sociale di Gesù Cristo:

Il Salvatore del mondo non è più chiamato a regnare sulla società perché ciò è contrario alla dignità umana dei singoli popoli, ognuno dei quali padrone di avere la propria religione e di non essere ‘disturbato’ ” (p. 14).

Egli non poteva dunque ammettere, in nessun modo, questa vera e propria detronizzazione di Nostro Signore Gesù Cristo.

Proseguendo la lettura non mancano poi i passi dove l'autrice ripercorre i momenti dolorosi che portarono alla scomunica del 1988. Anche qui però, contrariamente ad una vulgata molto accreditata dai media, mons. Lefebvre ci viene presentato come una persona ben diversa dal clichè tetro ed arcigno fatto proprio da molti giornalisti.
Egli spesso ebbe a stigmatizzare lo "zelo amaro" di coloro che criticano ogni cosa senza lo spirito di carità che riesce, più delle parole, ad incoraggiare comportamenti virtuosi ed in grado di portare frutti.

"Bisogna assolutamente evitare lo zelo amaro, peraltro condannato da san Pio X nella sua prima enciclica, E Supremi (4 ottobre 1903). Niente è invece più efficace della carità. "Si spererebbe invano di attirare le anime a Dio con uno zelo pieno di amarezza; rimproverare duramente gli errori e riprendere i vizi con asprezza causa molto spesso più danni che vantaggi". San Paolo insegna a confutare, a sgridare, ad esortare, ma aggiunge che è necessaria la pazienza e la mitezza" (p. 11).

Ma sullo sfondo, specialmente negli ultimi anni molto dolorosi della sua vita, aleggeranno sempre, negli scritti come nelle omelie, nella predicazione degli esercizi spirituali come nelle pubbliche conferenze, le drammatiche constatazioni espresse, con disarmante semplicità, nella famosa omelia di Lille nel 1976:

"Al contrario, penso che sarei stato scomunicato se a quel tempo avessi formato i seminaristi come li formano ora nei nuovi seminari; se a quel tempo avessi insegnato il catechismo che si insegna oggi, mi avrebbero chiamato eretico; e se avessi detto la santa Messa come la dicono ora, mi avrebbero definito sospetto di eresia, fuori dalla Chiesa. Allora, io non capisco. È veramente cambiato qualcosa nella Chiesa!" (p. 9) .

Dobbiamo onestamente ammetterlo: nessuno, fino ad oggi, a meno di cadere nel relativismo più spinto, è riuscito a dare risposte credibili a queste semplici constatazioni. Passano i decenni, passano gli esegeti del Concilio, si alternano le ermeneutiche, ma nessuno potrà mai dare risposte in grado di giustificare come elementi di continuità quelli denunciati da mons. Marcel Lefebvre.
Forse è proprio per questo che, a distanza di venti anni dalla sua scomparsa, la figura di questo vescovo continua ad attrarre tutti coloro che cercano, pur con i limiti di noi umani, la Verità.



Marco BONGI

Cristina Siccardi: Maestro in Sacerdozio: la spiritualità di Monsignor Marcel Lefebvre, ed. SUGARCO, € 23.00 (Ricco inserto fotografico con documenti inediti).
Per gentile concessione dell'Editore SUGARCO, che ringraziamo vivamente, pubblichiamo, in anteprima, il quarto capitolo de Maestro in Sacerdozio. La spiritualità di Monsignor Marcel Lefebvre, dal titolo

«Dio non ha bisogno di sonatori di mandolino»


L’altro pilastro della vita interiore di Monsignor Lefebvre è, come si è detto, dom Jean-Baptiste Chautard, al secolo Gustave. Ragazzo vivacissimo e chierichetto modello, Gustave diventa catechista formidabile ed amato dei saltimbanchi della fiera di Marsiglia e consacra molte ore alla visita degli infermi poveri. Un giorno sente prepotente la chiamata di Dio, che lo vuole tutto per sé. «Resiste fin che può – quindici giorni – poi si arrende» (1). Certosino, gesuita, benedettino? Ogni ordine religioso offre a lui un lato affascinante, è indeciso… poi sceglie, si arruola alla milizia di san Bernardo, solitario monaco. E quell’abate della trappa di Sept-Fons diventerà centro irradiante ed operoso di ogni santa e santificante attività della Chiesa. Il padre gli è ostile, non lo lascia andare, poi deve piegarsi, ma di lui non vorrà più saperne.
Alcuni tratti della personalità di Chautard ricordano la determinazione e la forza di Monsignor Lefebvre. Come della sua grande famiglia trappista l’abate è il padre che provvede il pane e cura le anime, raggiungendo tutto e tutti senza trascurare niente, così Monsignore sarà l’amabile padre per i seminaristi della futura Fraternità San Pio X. Entrambi istruiscono e trascinano: hanno un infinito rispetto per le anime che considerano una ad una per le loro necessità, predisposizioni e limiti. Anche nella battaglia di difesa si assomigliano. Il primo dovrà difendere con i denti, con la stessa determinazione che userà Lefebvre per le battaglie che sosterrà, il suo ordine minacciato dalla Francia attanagliata dal liberalismo che vuole sopprimere gli ordini contemplativi: dodici anni di intensa lotta, piena di ardore e di intelligenza. «Dovrà insinuarsi negli ambienti politici, trattare con uomini di ogni colore… si presenterà ai persecutori cercando di illuminarli e di risvegliare la loro coscienza. Eccolo davanti al grande nemico, il Tigre, Clemenceau (2). Quel monaco che difende a testa eretta, senza paura, il diritto di esistenza per sé e per i suoi, parla con tanta convinzione» (3). Con la stessa energia e lo stesso zelo Monsignor Lefebvre affronterà le autorità ecclesiastiche: farà presente, a volte anche con toni accesi di ardore e passione, gli inganni del Modernismo e i pericoli di una lettura soggettivistica delle realtà religiose. Entrambi sostennero la battaglia di difesa, l’uno del proprio istituto religioso, l’altro della Fede e dell’ortodossia cattolica, con tutti i mezzi a loro disposizione: il soprannaturale in loro non richiese la rinuncia di nessun lecito mezzo umano, di nessuna risorsa naturale. Seppure monaco dom Chautard fu costretto a vivere, suo malgrado, nell’azione, arrivando anche a venti ore di lavoro quotidiano. Attivissimo fu anche Monsignor Lefebvre, prima come semplice sacerdote, poi come missionario in Gabon, Arcivescovo di Dakar (4), Delegato apostolico dell’Africa francofona, Vescovo di Tulle, Superiore della congregazione dello Spirito Santo, dinamico e operoso padre conciliare, fondatore e Superiore della Fraternità San Pio X. «Il nome Marcel Lefebvre suscita in molti antipatia ed avversione, in realtà, almeno fino a poco prima dello scontro con Paolo VI è stato considerato in Vaticano per molti decenni uno dei migliori vescovi a livello mondiale della Chiesa Cattolica» (5); ma seppe ugualmente vivere in perfetto equilibrio con la vita contemplativa, avendo appreso da Chautard che «La vera fecondità del lavoro apostolico è legata alla santità dell’apostolo» (6) e che «Base di ogni azione esteriore è un’intensa vita d’unione con Dio» (7). Infine, entrambi seppero vivere con sincera umiltà ed amabile semplicità. Altro mattone fondante della vita di Monsignor Lefebvre, sorgente di tutta la sua attività, fu, come sostiene ancora Chautard, la volontà di Dio. Tutto ciò che il Vescovo francese scelse e fece fu sempre ritenuta risposta ai desideri e propositi di Dio. «Ogni attimo viene a noi carico di un comando e di un soccorso divino e va ad immergersi nell’eternità per essere poi sempre ciò che noi ne avremo fatto» (8). Era perciò logico obbedire, ciecamente, a Dio ed essergli fedele, sempre e a qualunque prezzo. «Ogni manifestazione della volontà di Dio è come una freccia d’amore tinta dal sangue divino, che viene dal seno della SS. Trinità diretta al nostro cuore; e la freccia presentandosi alla nostra volontà, porta con sé la luce e la forza: la grazia del momento presente» (9).
La prima attività del sacerdote sia per Chautard che per Lefebvre fu la propria santificazione, la seconda fu la santificazione delle anime. Sia l’uno che l’altro non ambirono mai alla forbita forma oratoria, ma, attenti allo sguardo di Dio su di sé, divennero maestri di pensiero, guide ferme e rigorose perché «Dio non ha bisogno di sonatori di mandolino» (10), ma di uomini di massima fiducia, di eterne promesse, di provata fedeltà, di lealtà schietta, di combattenti veri; non certo di gente sonnacchiosa o «gelatina profumata» (11) o di ipocriti ed infidi adulatori.
Chautard scrisse un’opera che è diventata un classico della letteratura spirituale, vero e proprio capolavoro, L’anima di ogni apostolato. Il beato Giacomo Alberione (1884-1971) scrisse: «Leggete L’anima di ogni apostolato, poi leggete la vita dell’Autore: l’una illumina l’altra; da entrambe un calore ardente di vita interiore e di vita d’apostolato». A quest’opera Monsignor Lefebvre si accostò con vivo interesse, vi aderì e la sottoscrisse.

«Tu ergo, fili mi, confortare in gratia (12). La grazia è una partecipazione alla vita dell’Uomo-Dio. La creatura possiede una certa misura di forza – e in un certo senso si potrebbe qualificare e definire una forza – ma Gesù è la forza per essenza: in Lui è la pienezza della forza del Padre, l’onnipotenza dell’azione divina, e il suo Spirito viene detto Spirito di fortezza.
In voi solo, o Gesù – diceva San Gregorio Nazianzeno – sta tutta la mia forza. Fuori di Cristo, dice a sua volta San Girolamo, non sono che impotenza» (13).

Monsignor Lefebvre seguì i cinque caratteri della forza di Gesù ben elencati da Chautard, il quale riprese san Bonaventura (1217/1221 ca.-1274), che trattò di ciò nel quarto libro del Compendium Theologiae: il primo carattere è quello di intraprendere le cose difficili e affrontare, con risolutezza gli ostacoli: «Viriliter agite et confortetur cor vestrum» (14). Il secondo è il disprezzo delle cose del mondo: «Omnia detrimentum feci et arbitror ut stercora» (15). Il terzo è la pazienza nelle tribolazioni, ovvero «Fortis ut mors dilectio» (16). Il quarto è la resistenza alle tentazioni: «Tamquam leo rugiens circuit… cui resitite fortes in fide» (17). Il quinto è il martirio interiore, così come lo descrive dom Chautard: «la testimonianza, non del sangue, ma della vita che grida al Signore: Voglio essere tutta vostra. E consiste nel combattere la concupiscenza, nel domare i vizi e nel lavorare energicamente per l’acquisto della virtù: Bonum certamen certavi» (18), pertanto poter esclamare con fierezza paolina: «Ho combattuto la buona battaglia» (19).
Abbeverarsi alle fonti spirituali e teologiche di Marmion e di Chautard significò per Monsignor Lefebvre, in definiva, indossare una corazza così resistente e impenetrabile da non poter essere scalfita da niente e da nessuno e anche quando rimarrà solo di fronte al nuovo che avanzava e sovvertiva, mandando all’aria i metodi formativi dei seminari usati fino ad allora ed affossando, con una nuova e protestantizzante liturgia, la Santa Messa di sempre, si espose con vigore, non temendo alcunché, in quanto

«mentre l’uomo esteriore conta sulle proprie forze naturali, l’uomo interiore vede in esse solo degli aiuti, utili sì ma insufficienti. Il sentimento della sua debolezza e la sua fede nella potenza di Dio, gli dànno, come a S. Paolo, la giusta misura della sua forza20. Di fronte ai pericoli che sorgono d’ogni parte, ripete con umile fierezza: Cum infiormor, tunc potens sum. Senza la vita interiore, disse San Pio X, mancheranno le forze per sopportare con perseveranza le noie che accompagnano ogni apostolato, la freddezza e la scarsa collaborazione dei buoni, le calunnie degli avversari, e talvolta le gelosie degli amici e dei compagni di lotta… Solo una virtù paziente, radicata nel bene e allo stesso tempo soave e delicata, è capace di evitare o diminuire queste difficoltà» (21).

Le parole di Chautard, brucianti vita e chiaramente sperimentate dall’autore, entrarono così profondamente in Monsignor Lefebvre che leggendole non è difficile vedere davanti a noi il pastore di Écône dalla sorprendente stabilità, una stabilità umanamente impossibile da sostenere con tutte le pressioni, che gli vennero dalle realtà e autorità sia laiche che ecclesiastiche nel tentativo di piegarlo e farlo desistere dalla sua “testardaggine”, quella che ha permesso alla Tradizione di avere un suo “nascondiglio”, un suo bunker, mentre fuori volavano missili e cadevano bombe…

«Con la vita di orazione, simile alla linfa che dalla vite scorre nei tralci, discende nell’apostolo la forza divina per fortificare l’intelligenza, radicandolo sempre più nella fede. E l’apostolo allora progredisce perché questa virtù rischiara con più viva luce il suo cammino. Avanza risolutamente perché sa ove andare e come deve raggiungere la sua meta.
Questa divina illuminazione è accompagnata da una tale energia soprannaturale di volontà, che anche il carattere più debole ed instabile diviene capace di atti eroici» (22).

È incredibile come dom Chautard sveli, con tanta naturalezza e semplicità, i segreti dell’esistere e dia la chiave per accedervi e raggiungere, con la perfezione cristiana, la felicità, seppur nel dolore. Il prezzo che Monsignor Lefebvre pagò, subendo anche la scomunica ed un ripudio da parte di quella Chiesa, per la quale offrì tutto se stesso, fu il sacrificio che con convinzione fu disposto ad offrire, pur di rimanere ancorato alla Chiesa di sempre, quella nella quale era entrato e che voleva mantenere tale come l’aveva conosciuta, senza nuovi e mondani maquillage: «È così che il manete in me, l’unione con l’immutabile, con colui che è il Leone di Giuda e il pane dei forti, spiega il miracolo della costanza invincibile e della fermezza così perfetta che nell’ammirabile apostolo san Francesco di Sales s’univano a una dolcezza e a un’umiltà senza pari», il Vescovo di Ginevra, tutto fuoco contro gli eretici, era poi tenerissimo con le anime da riportare all’unico ovile, «Lo spirito e la volontà si fortificano con la vita interiore, perché ne è fortificato l’amore. Gesù lo purifica, lo dirige e l’accresce progressivamente, lo fa partecipare ai sentimenti di compassione, di devozione, d’abnegazione e di disinteresse del suo adorabile Cuore. Se questo amore cresce fino a divenire passione, allora conduce al massimo sviluppo e utilizza a suo profitto tutte le forze naturali e soprannaturali dell’uomo» (23).
Da padre Le Floch, da dom Marmion e da dom Chautard, il giovane don Marcel Lefebvre, che fu ordinato il 21 settembre 1929 a Lille, comprese che solo Cristo deve essere l’ideale per il sacerdote e in Lui trova compimento ogni più piccola o grande aspirazione.


NOTE

1. G.B. Chautard, L’anima di ogni apostolato, Edizioni Paoline, Milano 1989, p.6.
2. Georges Benjamin Clemenceau (1841-1929) nacque nella conservatrice Vandea, da una famiglia solidamente anticlericale e repubblicana.
3. G.B. Chautard, op. cit., p. 10.
4. Ricordiamo che Monsignor Lefebvre, dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1929, venne nominato vicario in una parrocchia operaia di Lille. Entrò nella Congregazione missionaria dei Padri dello Spirito Santo, partendo per il Gabon nel 1932. Appena giunto in Africa, fu nominato professore di Dogmatica e di Sacra Scrittura al Seminario Maggiore di Libreville diventandone il direttore nel 1934. Nel settembre del 1947, fu consacrato vescovo e nominato Vicario Delegato del Senegal. L’anno successivo fu nominato Delegato Apostolico per tutta l’Africa francese. Rappresentante della Santa Sede in 18 Paesi africani, era responsabile di 45 giurisdizioni ecclesiastiche, due milioni di cattolici, 1.400 preti e 2.400 religiose. Nel 1955 divenne il primo arcivescovo di Dakar dove rimase fino al 1962. Al suo ritorno in Francia, monsignor Lefebvre fu messo a capo della piccola diocesi di Tulle, dove rimase pochi mesi poiché eletto Superiore Generale dei Padri dello Spirito Santo. Al Concilio Vaticano II fu uno degli animatori del Coetus Internationalis Patrum, un gruppo di 250 vescovi che tentò di opporsi alla corrente progressista.
5. M. Stanzione, in http://www.agerecontra.it/public/press/?p=10972.
6. G.B. Chautard, op. cit., p. 15.
7. G.B. Chautard, Ibidem, p. 15.
8. G.B. Chautard, Ibidem, p. 15.
9. G.B. Chautard, Ibidem, p. 15-16.
10. G.B. Chautard, Ibidem, p. 17.
11. G.B. Chautard, Ibidem, p. 17.
12. «Tu dunque, o Figlio mio, prendi vigore nella grazia» (2Tim 2,1).
13. G.B. Chautard, op. cit., p. 125.
14. «Operate da forti e il vostro cuore si rafforzi» (Sal. XXX).
15. «Mi sono privato di tutte le cose, e le ho stimate spazzatura» (Filipp. III,8).
16. «L’amore è forte come la morte» (Cant, VII, 6).
17. «Il diavolo qual leone ruggente s’aggira attorno a voi… resistetegli fermi nella fede» (I Pt 5, 8-9).
18. «Ho cercato la buona lotta». G.B. Chautard, op. cit., p. 126.
19. 2 Tim 4, 7.
20. «Poiché quando son debole, allora sono potente» (2Cor 12, 10).
21. G.B. Chautard, op. cit., pp. 126-127.
22. G.B. Chautard, op. cit., p. 127.
23. G.B. Chautard, op. cit., p. 127.

mercoledì 19 ottobre 2011

una catastrofe antropologica

Chiesa di Santa Sofia a Nicea dove fu celebrato il Concilio
Finalmente un commento non banale ai fatti di sabato scorso a Roma. Troppo flebili e fuori bersaglio sono state le reazioni delle autorità ecclesiastiche preoccupate più dell'impatto mediatico delle immagini che del fatto in sé gravissimo. Ricordiamo di aver letto tra i canoni del Secondo Concilio di Nicea (787 d. C.) che "l'onore reso all'immagine passa a colui che essa rappresenta; e chi adora l'immagine, adora la sostanza di chi in essa è riprodotto". Volgiamo in negativo il discorso e vediamo che quanto compiuto dall'iconoclasta è qualcosa di ben più di una semplice "offesa alla sensibilità dei credenti" come sostenuto del portavoce della Santa Sede, ma una vera e propria profanazione. Né si può dire, come è stato detto, che si può sperare non intendesse compiere un atto di tal fatta un tale che mentre si accaniva sull'immagine sacra bestemmiava. Del resto impressiona il fatto che tali disordini siano avvenuti nei pressi della Basilica Lateranense, basilica Papale per eccellenza, e della Scala Santa da molto tempo rinomato centro di esorcismi e di liberazione. Il diavolo ha battuto un colpo e gli uomini di Chiesa parlano d'altro....

 

 

 

Gettata in strada e calpestata

l’immagine della Madre di Dio

di Daniele Fazio


Il centro di Roma, il 15 ottobre 2011, giorno della manifestazione internazionale dei cosiddetti Indignados è stato oggetto di una guerriglia urbana devastante, che ha lasciato danni ingentissimi agli arredi urbani, ai palazzi istituzionali e alle proprietà private dei malcapitati cittadini. Per puro caso fortuito non c’è scappato
il morto, perchè i manifestanti o quanto meno, come si dice le frange estremiste di essi, non si sono mostrati affatto tolleranti e miti nei confronti soprattutto delle forze dell’ordine. Ha molto impressionato, poi, la profanazione della parrocchia romana dei Santi Marcellino e Pietro con la distruzione di un Crocifisso e della statua della Madonna di Lourdes (n.d.r. la statua profanata è una statua dell'Immacolata e non della Madonna di Lourdes) di via Labicana.
Sin dal momento in cui arrivavano notizie e le prime cruente immagini delle manifestazione il coro del dissenso da parte degli italiani – dai politici ai singoli cittadini – è stato unanime. Ma indignarsi delle violenze degli Indignados non basta, né tantomeno superficialmente possiamo fermaci alla distinzione tra manifestanti pacifici e black bloc violenti. Questi ultimi cattivi che hanno rovinato una espressione di dissenso giusta e ammirevole. Approfondire la questione significa scoprire che i cosiddetti Indignados sono il frutto ultimo della disgregazione del tessuto sociale e culturale dell’Occidente che allontanandosi dalle sue radici – filosofia greca, diritto romano, cristianesimo –ha perso non solo la fede religiosa, ma anche il retto vivere civile e ora si vuole sempre più attestare su posizioni anarchiche e nichiliste di rifiuto di ogni e qualsiasi autorità legittima, dalla Chiesa alle autorità temporali.
Gli eventi, ma ancora di più l’ideologia degli Indignados, illustrano bene quella che da diverso tempo viene definita catastrofe antropologica. Si è ad una svolta epocale. Siamo giunti alla fine di un percorso di dissolvimento che prevede il rifiuto della verità, la dittatura del relativismo e la guerra contro la distinzione tra bene e male. Ciò incide sul modo di concepire la natura dell’uomo, i suoli legami vitali, rendendolo animale impulsivo e irrazionale, sazio e disperato, tanto che da diverso tempo si parla di post-umano che ha nelle espressioni del mondo digitale il suo principale mezzo tecnico. Il movimento degli indignati, caotico e vuoto, ha come obbiettivo la protesta per la protesta, ragion per cui è facilmente infiltrabile da parte di agenti eversivi e criminali. Ma questo tipo di violenza viene chiamato e favorito proprio dalle idee di fondo che l’ “indignazionismo” presenta. Anche se non tutti gli Indignados sono violenti – ovviamente c’è sempre l’utile idiota e il cattolico confuso - l’ambiente che la loro ideologia genera è collaterale all’espressione della violenza. È nella banalità che il male trionfa.
Il nome Indignados trae spunto da un testo di un ex militante della Resistenza francese, Stéphane Hessel, tradotto in Italia con il titolo Indignatevi, (Add editore, Torino 2011). Il piccolo testo, scarno nelle argomentazioni lancia poche tesi. Innanzitutto, vengono attaccati politici, industriali e Chiesa, che vengono definite “caste”, poi induce a pensare che per superare la crisi economica non occorre far alcun sacrificio, basterebbe cambiare establisciment con uomini vagamente leali e generosi, che possano sostenere gli antichi valori della resistenza francese e soprattutto la battaglia per i nuovi diritti di femministe ed omosessuali.
La prima manifestazione di questo movimento si è avuta a partire dal 15 maggio 2011 in Spagna protraendosi nelle contestazioni al Papa e alla Giornata Mondiale della Gioventù tenutasi a Madrid. Rispetto al movimento no global è chiara la presenza in questa nuova espressione rivoluzionaria di una carica assolutamente anticristiana ed antisociale. Non si vuole alcun legame con la politica e i tentativi di riassorbimento da parte della sinistra di tale potenziale finora sono falliti. Ma ancora di più non si vuole alcun legame forte con nessuno, non si rivendica il diritto al pane – come nel fenomeno della “primavera araba”, - ma quello ad avere l’ultimo smartphone e soprattutto s’insiste sui cosiddetti “nuovi diritti” e sul fatto che gli Stati dovrebbero mantenere tutti coloro che non hanno un lavoro. Sono nemici degli Indignados tutti coloro che distinguono finanza buona da finanza cattiva, che richiamano alla responsabilità delle azioni dell’uomo e alla necessità di vivere con sobrietà e nella ricerca della verità per superare la crisi economica, la cui soluzione è etica e spirituale e non meramente materiale.
Come sempre si è verificato nelle tappe della Rivoluzione in Occidente, i rivoluzionari prendono spunto da problemi reali a cui danno delle soluzioni che non risolvono, bensì aggravano ancora di più il problema. Non si vuol curare una febbriciattola con la giusta medicina, ma con un virus letale che elimini non la febbre, ma l’intero organismo. Se, dunque, il motivo principale della protesta indignazionista potrebbe avere un fondo di verità in quanto intercetta il disagio generato dalla crisi economica internazionale, i suoi presupposti e le sue pseudosoluzioni restano dei mali peggiori della stessa crisi.
Che soluzioni possono essere prospettate? Innanzitutto gli autori materiali delle devastazioni devono esser punti con il carcere. Questo se funziona bene, ad esempio, in Inghilterra, in Italia proprio per il cortocircuito vigente nel sistema giudiziario tarda a trovar applicazione. I black bloc sanno benissimo che in Italia al massimo faranno due giorni di carcere e poi verranno rimessi con molta facilità in libertà. Se questa è una soluzione necessaria e immediata che grava sulla classe dirigente di un Paese, la vera risposta, però, sta, non in una retorica cieca, buonista e demagogica in cui si sono prodotti con le loro laiche benedizioni Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo, ma in una vera alternativa culturale ed educativa che rimetta al centro le priorità e i bisogni dell’uomo, spiegando che esiste un diritto naturale, che i diritti si coniugano con i doveri e che si può distinguere il bene dal male ed è realizzante optare per il primo ed evitare il secondo. Tutto questo per i cattolici ha un nome: nuova evangelizzazione. Solo con Cristo l’uomo diventa pienamente uomo.

http://santamariaelemosina.wordpress.com/2011/10/17/le-violenze-romane-e-quella-statua-profanata/

il grande inganno circa la S. Comunione in mano

S. Cirillo di Gerusalemme e la Comunione sulla mano

Archeologite Liturgica – Sacrilegio Dilagante



In UnaVox

[A proposito della questione relativa alla cosiddetta "Comunione sulla mano", riproduciamo un articolo del R. P. Giuseppe Pace, S. B. D., pubblicato nel n° di gennaio 1990 del periodico Chiesa Viva (Editrice Civiltà, via Galileo Galilei, 121, 25123 Brescia).]
La ghianda è una quercia in potenza; la quercia è una ghianda divenuta perfetta. Il ritornare ghianda per una quercia, posto che lo potesse senza morire, sarebbe un regredire. Per questo nella Mediator Dei (n. 51) Pio XII condannava l'archeologismo liturgico come antiliturgico con queste parole: «… non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi, ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l'eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall'illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono, con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del Depositum Fidei affidatole dal suo divin Fondatore, a buon diritto condannò».


Di una tale ossessione morbosa - di archeologite - sono preda quei pseudoliturgisti che stanno desolando la Chiesa in nome del Concilio Vaticano II; pseudoliturgisti che talora giungono al punto di spingere con l'esortazione e con l'esempio i loro sudditi a violare quelle poche leggi sane che ancora sopravvivono, e da loro stessi formalmente promulgate o confermate.
Sintomatico a questo riguardo è il caso del rito della Santa Comunione. Qualche vescovo infatti, dopo aver proclamato che il rito tradizionale, di collocare le sacre Specie sulle labbra del comunicando, è tuttora in vigore, permette tuttavia che si distribuisca la santa Comunione in cestelli che si passano i fedeli dalla mano dell'uno a quella dell'altro; o lui stesso depone le sacre Specie nelle mani nude - e sempre pulite? - del comunicando. Se si vuole convincere i fedeli che la santissima Eucarestia non è che del pane comune, magari anche benedetto, per una refezioncella simbolica, certo si è imbroccata la via piú diretta: quella del sacrilegio.
I fautori della Comunione in mano fanno appello a quell'archeologismo pseduoliturgico condannato apertis verbis da Pio XII. Dicono infatti e ripetono che in tal modo la si deve ricevere, perché in tal modo si è fatto in tutta la Chiesa, sia in Oriente che in Occidente dalle origini in poi per mille anni.


È vero e certo che dalle origini in poi per quasi duemila anni i comunicandi dovevano astenersi da qualsiasi cibo e bevanda, dalla vigilia fino al momento della santa Comunione, in preparazione alla medesima. Perché quelli dell'archeologite non restaurano un tale digiuno eucaristico? che certamente contribuirebbe non poco a mantenere vivo nella mente dei comunicandi il pensiero della santa Comunione imminente, e a disporveli meglio.
È invece certamente falso che dalle origini in poi per mille anni ci sia stata in tutta la Chiesa, in Oriente e in Occidente, la consuetudine di deporre le sacre Specie nelle mani del fedele.


Il cavallo di battaglia di quei pesudoliturgisti è il seguente brano delle Catechesi mistagogiche attribuite a san Cirillo di Gerusalemme: «Adiens igitur, ne expansis manuum volis, neque disiunctis digitis accede; sed sinistram velut thronum subiiciens, utpote Regem suscepturæ: et concava manu suscipe corpus Christi, respondens Amen». (Andando quindi [alla Comunione] accostati non con le palme delle mani aperte, né con le dita disgiunte; ma tenendo la sinistra a guisa di trono sotto a quella che sta per accogliere il Re; e con la destra concava ricevi il corpo del Cristo, rispondendo Amen).
Giunti a questo Amen, si fermano; ma le Catechesi mistagogiche non si fermano lí, ed aggiungono:

«Postquam autem caute oculos tuos sancti corporis contactu santificaveris, illud percipe… Tum vero post communionem corporis Christi, accede et ad sanguinis poculum: non extendens manus; sed pronus [in greco: 'allà kùpton, che il Bellarmino traduce genu flexo], et adorationis ac venerationis in modum, dicens Amen, sancticeris, ex sanguine Christi quoque sumens. Et cum adhuc labiis tuis adbaeret ex eo mador, manibus attingens, et oculos et frontem et reliquos sensus sanctifica… A communione ne vos abscindite; neque propter peccatorum inquinamentum sacris istis et spiritualibus defraudate mysteriis». (Dopo che tu con cautela abbia santificato i tuoi occhi mettendoli a contatto con il corpo del Cristo, accostati anche al calice del sangue: non tenendo le mani distese; ma prono e in modo da esprimere sensi di adorazione e venerazione, dicendo Amen, ti santificherai, prendendo anche del sangue del Cristo. E mentre hai ancora le labbra inumidite da quello, toccati le mani, e poi con esse santifica i tuoi occhi, la fronte e tutti gli altri sensi… Dalla comunione non staccatevi; né privatevi di questi sacri e spirituali misteri neppure se inquinati dai peccati). (P. G. XXXIII, coll. 1123-1126).


Chi potrà sostenere che un tale rito fosse sia pure un po' meno che per mille anni consueto nella Chiesa universale? E come conciliare un tale rito, secondo il quale è ammesso alla santa Comunione anche chi è inquinato di peccati, con la consuetudine certamente universale sin dalle origini che proibiva la santa Comunione a chi non era santo?: «Itaque quicumque manducaverit panem hunc, vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis Domini. Probet autem seipsum homo: et sic de pane illo edat, et de calice bibat. Qui enim manducat et bibit indigne, indicum, sibi manducat et bibit non diiudicans corpus Domini». (Perciò chiunque abbia mangiato di questo pane e bevuto del calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Si esamini dunque ognuno: e cosí [trovatosi senza peccati gravi] di quel pane si cibi e di quel calice beva. Colui infatti che ne mangia e ne beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, non discernendo il corpo del Signore ). (I Corinti, 11, 27-29).


Un tal stravangante rito della Santa Comunione, la cui descrizione si conchiude con l'esortazione di fare la santa Comunione anche se inquinati di peccati, non fu certo predicato da San Cirillo nella Chiesa di Gerusalemme, né poté essere lecito in qualsivoglia altra Chiesa. Si tratta infatti di un rito dovuto alla fantasia, oscillante tra il fanatismo e il sacrilego, dell'autore delle Costituzioni Apostoliche: un anonimo Siriano, divoratore di libri, scrittore instancabile, che riversa nei suoi scritti, indigerite e contaminate dai parti della sua fantasia, gran parte di quelle sue stesse letture; che al libro VIII di dette Costituzioni apostoliche, aggiunge, attribuendo a san Clemente Papa, 85 Canoni degli Apostoli; canoni che Papa Gelasio I, nel Concilio di Roma del 494, dichiarò apocrifi: «Liber qui appellatur Canones Apostolorum, apocryfus (P. L., LIX, col. 163).
La descrizione di quel rito stravagante, se non necessariamente sempre sacrilego, entrò nelle Catechesi mistagogiche per opera di un successore di san Cirillo, che i piú ritengono sia il vescovo Giovanni, cripto-ariano, origeniano e pelagiano; e perciò contestato da sant'Epifanio, da san Gerolamo e sant'Agostino.

Come può il Leclercq affermare che: «… nous devons y voir [in detto rito stravagante] une exacte représentation de l'usage des grandes Eglises de Syrie»? Non lo può affermare che contraddicendosi, dato che poco prima afferma trattarsi di: «… une liturgie de fantasie. Elle ne procède et elle n'est destinée qu'à distraire son auteur; ce n'est pas une liturgie normale, officielle, appartenant à une Eglise déterminée» (Dictionaire de Archeologie chretienne et de Liturgie, vol. III, parte II, col. 2749-2750).

Abbiamo invece delle testimonianze certe della consuetudine contraria, e cioè della consuetudine di deporre le sacre Specie sulle labbra del comunicando, e della proibizione ai laici di toccare dette sacre Specie con le proprie mani. Solo in caso di necessità e in tempo di persecuzione, ci assicura san Basilio, si poteva derogare da detta norma, ed era concesso ai laici di comunicarsi con le proprie mani (P. G., XXXII, coll. 483-486).
Non intendiamo, è chiaro, passare in rassegna tutte le testimonianze invocate a dimostrare che nell'antichità vigeva la consuetudine di deporre le sacre Specie sulle labbra del comunicando laico; ne indichiamo solo alcune sintomatiche, e peraltro sufficienti a smentire quanti affermano che per mille anni nella Chiesa universale, sia d'Oriente che d'Occidente, fu consuetudine deporre le sacre Specie nelle mani dei laici.

Sant'Eutichiano, Papa dal 275 al 283, a che non abbiano a toccarle con le mani, proibisce ai laici di portare le sacre Specie agli ammalati: «Nullus præsumat tradere communionem laico vel femminæ ad deferendum infirmo» (Nessuno osi consegnare la comunione ad un laico o ad una donna per portarla ad un infermo) (P. L., V, coll. 163-168).
San Gregorio Magno narra che sant'Agapito, Papa dal 535 al 536, durante i pochi mesi del suo pontificato, recatosi a Costantinopoli, guarí un sordomuto all'atto in cui «ei dominicum Corpus in os mitteret» (gli metteva in bocca il Corpo del Signore) (Dialoghi, III, 3).



Questo per l'Oriente; e per l'Occidente, si sa ed è indubitabile che lo stesso san Gregorio Magno amministrava in tal modo la santa Comunione ai laici.
Già prima il Concilio di Saragozza, nel 380, aveva lanciato la scomunica contro coloro che si fossero permessi di trattare la santissima Eucarestia come se si fosse in tempo di persecuzione, tempo nel quale anche i laici potevano trovarsi nella necessità di toccarla con le proprie mani (SAENZ DE AGUIRRE, Notitia Conciliorum Hispaniæ, Salamanca, 1686, pag. 495).

Innovatori indisciplinati non mancavano certo neppure anticamente. Il che indusse l'autorità ecclesiastica a richiamarli all'ordine. Cosí fece il Concilio di Rouen, verso il 650, proibendo al ministro dell'Eucarestia di deporre le sacre Specie sulla mano del comunicando laico: «[Presbyter] illud etiam attendat ut eos [fideles] propria manu communicet, nulli autem laico aut fœminæ Eucharistiam in manibus ponat, sed tantum in os eius cum his verbis ponat: "Corpus Domini et sanguis prosit tibi in remissionem peccatorum et ad vitam æternam". Si quis hæc transgressus fuerit, quia Deum omnipotentem comtemnit, et quantum in ipso est inhonorat, ab altari removeatur» ([Il presbitero] baderà anche a questo: a comunicare [i fedeli] di propria mano; a nessun laico o donna deponga l'Eucarestia nelle mani, ma solo sulle labbra, con queste parole: "Il corpo e il sangue del Signore ti giovino per la remissione dei peccati e per la vita eterna". Chiunque avrà trasgredito tali norme, disprezzato quindi Iddio onnipotente e per quanto sta in lui lo avrà disonorato, venga rimosso dall'altare). (Mansi, vol. X, coll. 1099-1100).
Per contro gli Ariani, per dimostrare che non credevano nella divinità di Gesú, e che ritenevano l'Eucarestia come pane puramente simbolico, si comunicavano stando in piedi e toccando con le proprie mani le sacre Specie. Non per nulla sant'Atanasio poté parlare dell'apostasia ariana (P. G., vol. XXIV, col. 9 ss.).

Non si nega che sia stato permesso ai laici di toccare talora le sacre Specie, in certi casi particolari, o anche in alcune Chiese particolari, per qualche tempo. Ma si nega che tale sia stata la consuetudine della Chiesa sia in Oriente che in Occidente per mille anni; e piú falso ancor affermare che si dovrebbe fare cosí tuttora. Anche nel culto dovuto alla santissima Eucarestia è avvenuto un sapiente progresso, analogo a quello avvenuto nel campo dogmatico (con il quale non ha nulla a che fare la teologia modernista della morte di Dio).
Detto progresso liturgico rese universale l'uso di inginocchiarsi in atto di adorazione, e quindi l'uso dell'inginocchiatoio; l'uso di coprire la balaustra di candida tovaglia, l'uso della patena, talora anche di una torcia accesa; e poi la pratica di fare almeno un quarto d'ora di ringraziamento personale. Abolire tutto ciò non è incrementare il culto dovuto a Dio nella santissima Eucarestia, e la fede e la santificazione dei fedeli, ma è servire il demonio.



Quando san Tommaso (Summa Theologica, III, q. 82, a 3) espone i motivi che vietano ai laici di toccare le sacre Specie, non parla di un rito di recente invenzione, ma di una consuetudine liturgica antica come la Chiesa. Ben a ragione il Concilio di Trento non solo poté affermare che nella Chiesa di Dio fu consuetudine costante che i laici ricevevano la Comunione dai sacerdoti, mentre i sacerdoti si comunicavano da sé; ma addirittura che tale consuetudine è di origine apostolica (Denzinger, 881). Ecco perché la troviamo prescritta nel Catechismo di san Pio X (Questioni 642-645). Ora tale norma non è stata abrogata: nel Nuovo Messale Romano, all'articolo 117, si legge che il comunicando tenens patenam sub ore, sacramentum accipit (tenendo la patena sotto la bocca, prenda il sacramento).
Dopo di che non si riesce a capire come mai gli stessi promulgatori di tanto sapiente norma, ne vadano dispensando le diocesi una dopo l'altra. Il semplice fedele di fronte a tanta incoerenza, non può che concepire una grande indifferenza nei riguardi delle leggi ecclesiastiche liturgiche e non liturgiche.

tratto da: http://muniatintrantes.blogspot.com/2011/10/s.html

domenica 16 ottobre 2011

oremus pro Pontifice nostro Benedicto!

"Come già ho fatto poc’anzi durante l’omelia della Messa, approfitto volentieri di questa occasione per annunciare che ho deciso di indire uno speciale Anno della Fede, che avrà inizio l’11 ottobre 2012 – 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II – e si concluderà il 24 novembre 2013, Solennità di Cristo Re dell’universo. Le motivazioni, le finalità e le linee direttrici di questo “Anno”, le ho esposte in una Lettera Apostolica che verrà pubblicata nei prossimi giorni. Il Servo di Dio Paolo VI indisse un analogo “Anno della fede” nel 1967, in occasione del diciannovesimo centenario del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo, e in un periodo di grandi rivolgimenti culturali. Ritengo che, trascorso mezzo secolo dall’apertura del Concilio, legata alla felice memoria del Beato Papa Giovanni XXIII, sia opportuno richiamare la bellezza e la centralità della fede, l’esigenza di rafforzarla e approfondirla a livello personale e comunitario, e farlo in prospettiva non tanto celebrativa, ma piuttosto missionaria, nella prospettiva, appunto, della missione ad gentes e della nuova evangelizzazione" (Benedetto XVI, all'Angelus di Domenica 16 ottobre 2011)