sabato 8 gennaio 2011

immaculata victrix

"Quando il veleno ariano ebbe contaminato non una piccola regione ma il mondo intero, quasi tutti i vescovi latini cedettero all'eresia, alcuni costretti con la violenza, altri sedotti con la frode. Una specie di nebbia offuscò allora le menti, per cui non era possibile distinguere la via da seguire. Per essere al riparo da questa peste contagiosa il vero e fedele discepolo di Cristo dovette preferire l'antica fede a queste false novità" (San Vincenzo da Lerino, Commonitorium).

“È possibile che i nostri nemici debbano dispiegare tanta attività, fino ad avere la superiorità, mentre noi restiamo senza far niente, tutt’al più applicati a pregare, senza metterci all’opera? Non abbiamo forse delle armi più potenti, la protezione del Cielo della Vergine Immacolata? L´Immacolata, vittoriosa e trionfatrice su tutte le eresie, non cederà il posto al nemico che rialza la testa, se troverà dei servitori fedeli e docili ai suoi ordini: riporterà nuove vittorie più grandi di tutto quello che si può immaginare" (San Massimiliano Kolbe)

venerdì 7 gennaio 2011

a Parigi vale una Messa


Mentre a Parigi si svolge il 10 convegno teologico del Courrier de Rome con la partecipazione di alcuni relatori italiani tra cui il Dott. Alessandro Gnocchi proponiamo il suo intervento durante il Convegno di Studi cattolici tenutosi a Rimini nell'ottobre scorso. Ecco il programma del Convegno di Parigi:


Xe Congrès théologique
Courrier de Rome
en partenariat avec
l’Institut Universitaire Saint-Pie X et DICI
Paris 7, 8 et 9 janvier 2011
Maison de la Chimie
28, rue Saint-Dominique 75007 Paris

La Tradition, une solution à la crise de l’Eglise ?

Vendredi matin (9 h – 12 h)
I. A-t-on le droit de poser cette question ?
9 h. La Tradition, une solution à la crise ? (Abbé Alain Lorans)
II. Exemples historiques
10 h. La crise arienne (Abbé Laurent Biselx)
11 h. L’application du Concile de Trente (Abbé Nicolas Portail)

Vendredi après-midi (15 h – 18 h)
15 h. L’Eglise en France après la Révolution (Professeur Jean de Viguerie)
16 h. Saint Pie X et le modernisme (Abbé Claude Boivin)
17 h. Mgr Lefebvre et la crise post-conciliaire (Abbé Niklaus Pfluger)

Samedi matin (9 h – 12 h)
III. Application à la crise actuelle
9 h. La Tradition face à la pensée moderne (Abbé Jean-Michel Gleize)
10 h. Le Filioque et la crise dans l’Eglise – en hommage à Romano Amerio (Abbé François Knittel)
11 h. La place du Concile Vatican II dans le Magistère de l’Eglise (Don Davide Pagliarani)

Samedi après-midi (15 h – 18 h)
15 h. Art et Tradition (Dottor Francesco Colafemmina)
16 h. Un témoignage
17 h. Situation de l’Eglise aujourd’hui à Rome et dans le monde (Table ronde : abbé Emmanuel du Chalard, dottor Alessandro Gnocchi)

Dimanche matin : Messe pontificale célébrée par Mgr Bernard Fellay à Saint-Nicolas du Chardonnet (10h30)
Dimanche après-midi (15 h – 18 h)
15 h. Témoignage de la dottoressa Cristina Siccardi, auteur en Italie d’une vie de Mgr Lefebvre
16h30. Qu’est-ce que la Fraternité Saint-Pie X peut apporter à l’Eglise ? (Mgr Bernard Fellay)


giovedì 6 gennaio 2011

l'araba fenice: che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa.

Convegno di Roma sul Vaticano II.
Intervento di Mons. Brunero Gherardini

C’era una volta l’Araba Fenice. Tutti ne parlavano, ma nessuno l’aveva mai vista. E c’è oggi una sua versione aggiornata, di cui pure tutti parlano e nessuno sa dire di che cosa si tratti: si chiama Pastorale.

1 – La parola - Sia ben chiaro: la parola in sé non è un problema, evidente essendo la sua derivazione da pascere: un verbo che nasce dal latino pabulum (pascolo, cibo), dal quale prende vita una famiglia non numerosissima, ma ben individuabile nei suoi componenti: pascere, appunto, nel senso di condurre al pascolo e dar da mangiare; pastum, di cui un evidente calco è l’italiano pasto, ma che può tradursi anche con cibo; pastor, che indica chi conduce al pabulum, procura il cibo e custodisce greggi ed armenti. Pastor diventa a sua volta il padre di pastoricia ars, in italiano pastorizia, o arte di chi alleva il bestiame; di pastura, col significato di pascer all’aperto; e di pastu- o pastorale, già presente nel tardo latino per qualificare l’abito, i cibi, le usanze, il linguaggio del pastore. Non discende, invece, pastorizzazione, o procedimento per la conservazione d’elementi liquidi, come il latte, perché la parola nasce dal francese pastoriser, derivante a sua volta da L. Pasteur (1822-1895), il suo inventore.

[...] Pastorale entrò presto nel gergo ecclesiastico, per qualificare tre lettere dell’epistolario paolino, o l’attività degli evangelizzatori e del loro insegnamento, o le insegne vescovili, quali l’anello, il bacolo, le lettere. Più recente, ma non moderno, è l’uso di pastorale con riferimento alla teologia e con orientamento non dogmatico; in origine anzi fu antidogmatico. Al di fuori del gergo ecclesiastico, però, un uomo di media cultura molto facilmente collegherà pastorale alla ninfa della poesia arcadica, al componimento poetico d’origine provenzale e contenuto amoroso, all’egloga virgiliana, al dramma “L’Aminta” di T. Tasso ed alla musica di carattere semplice e tenero, con specifica tipizzazione nella “sesta” di Beethoven.

2 – La parola nel Vaticano II – Dopo uno spettro semantico di tale ampiezza, l’allusione alla sconosciuta ed invisibile Araba Fenice potrebbe apparire insostenibile per evidente contraddizione. Se non che, il condizionale “potrebbe” è neutralizzato dall’assenza nei documenti conciliari d’una ragione sufficiente che lo giustifichi. Dico “ragione sufficiente”, perché se dicessi che nei documenti conciliari è assente la “parola”, darei la dimostrazione d’una crassa ed imperdonabile ignoranza del Vaticano II. La “parola” non solo c’è, ma abbonda; anzi caratterizza il Vaticano II nella sua specificità di Concilio ecumenico di fronte ai venti Concili che lo precedono. Il Vaticano II parla, infatti, d’azione pastorale in genere, e più direttamente d’attività pastorali; individua varie necessità pastorali e, a fronte di esse, auspica l’istituzione e la reciproca collaborazione di vari sussidi pastorali, non mancando di segnalare tra questi la programmazione ed organizzazione di “corsi, congressi, centri con relative biblioteche destinati agli studi pastorali, da affidar a persone altamente capaci”. Al fine d’estendere entro un raggio il più ampio possibile la sensibilità pastorale e le opportune conoscenze, il Vaticano II fa obbligo ai Vescovi di “studiare da soli o a livello interdiocesano il sistema migliore” che assicuri ai presbiteri, “soprattutto qualche anno dopo la loro ordinazione”, l’opportuno approfondimento dei metodi pastorali. Poiché un forte contributo all’azione apostolica della Chiesa può venir anche dal fronte laico, il Concilio invita i Vescovi a scegliere “sacerdoti dotati delle qualità necessarie e convenientemente formati”, che a loro volta impartiscano un’adeguata formazione ai laici per poi affidar loro speciali compiti d’azione pastorale. E perché “l’unità d’intenti tra sacerdoti e Vescovi renda sempre più fruttuosa la loro azione pastorale”, si sollecita una periodica riunione del clero, allargata anche ad altri membri dell’organismo ecclesiale, “per trattare di questioni pastorali”.

Alle Conferenze Episcopali delle singole Nazioni, vien caldamente raccomandato d’aver a cuore e promuovere la formazione pastorale del clero mediante “Istituti pastorali in collaborazione con parrocchie opportunamente scelte, convegni periodici, appropriate esercitazioni”. Né poteva mancar un richiamo alla “competente autorità ecclesiastica territoriale” per la fondazione d’un Istituto “di pastorale liturgica” che si valga d’ “esperti in liturgia, musica, arte sacra e pastorale”. Questi dati dimostrano che l’Araba fenice è di casa nel Vaticano II, ma il Vaticano II non dice che cosa o chi sia.

Chi “regge e pasce il popolo di Dio” vien peraltro incitato ad incarnar il buon Pastore che dà la vita per le sue pecorelle (Gv 10,11)”, e a seguire “l’esempio di quei preti che anche ai nostri tempi non esitarono a sacrificare se stessi per il proprio gregge”. In breve, nell’esortar il clero a farsi di giorno in giorno strumento d’un sempre più idoneo servizio al popolo di Dio, il Vaticano II dichiara esplicitamente che la sua finalità pastorale si ripromette “il rinnovamento interno della Chiesa, la diffusione dell’evangelo in tutt’il mondo e l’instaurazione d’un rapporto dialogico con esso” . Una tale finalità corrisponde evidentemente ad un’idea di fondo, ad una nozione almeno rudimentale di pastorale appena adombrata: rapporto dialogico col mondo da parte d’una Chiesa rinnovata nei suoi metodi d’evangelizzazione e d’apostolato. Qui, un po’ vagamente, l’Araba fenice incomincia così a farsi conoscere.

Tale e tant’insistenza non sorprende. E’ anzi un attestato di docilità e fedeltà alle linee maestre che papa Roncalli, l’11 ottobre 1962, prospettò ai Padri aprendo ufficialmente la grande Assise conciliare: pur mettendo la dottrina al primo posto dei lavori conciliari, ne diversificò la metodologia rispetto al passato. Prima la Chiesa non rifuggiva dalla condanna, severa e ferma. Oggi alla severità preferisce la medicina della misericordia. Per papa Roncalli, dunque, soprattutto di fronte ad un’umanità prigioniera di tante difficoltà, la Chiesa avrebbe dovuto mostrare il volto buono benevolo paziente della Madre, fomentare la promozione umana dilatando gli spazi della carità, diffondere serenità pace concordia ed amore. In tal modo i lineamenti dell’Araba fenice, pur rimanendo ancora indefiniti, si confondono con quelli della madre paziente e buona.

A conferma dell’indirizzo roncalliano, Paolo VI, nell’omilia del 7 dic. 1965 per la nona sessione del Concilio, dichiarò che la Chiesa ha a cuore, insieme con il regno dei cieli, l’uomo ed il mondo, è tutta anzi in funzione dell’uomo e del mondo, intimo essendo il legame tra la religione cattolica e la vita umana, al punto che dell’uomo e del genere umano la religione cattolica può dirsi la vita stessa, grazie alla sua sublime dottrina, alla cura materna con cui accompagna l’uomo verso il suo fine supremo, ai mezzi che gli dona perché possa conseguirlo. Ennesima dichiarazione d’intenti pastorali, che, rimanendo entro il limite del generico, non scoprono ancora il volto o i lineamenti dell’Araba fenice.

Tuttavia, sulla pastoralità del Concilio, nessun dubbio e nessuna discussione. Il Vaticano II non fu, solo perché non doveva esserlo, un Concilio dogmatico e tutto sommato nemmeno disciplinare. Volle esser soltanto pastorale. Eppure, nonostante i tanti interventi interni ed esterni, il genuino significato della sua dichiarata pastoralità è ancora fra le nebbie.

3 – Un concetto non definito – Poco sopra ho indicato le sfaccettature della pastoralità conciliare. La pastorale come aggettivo qualificativo o come aggettivo sostantivato ricorre in effetti decine e decine di volte. Non una sola, però, per darne se non la definizione, almeno un accenno di spiegazione. Riconosco che, analizzando criticamente le varie dichiarazioni, è possibile farsene una vaga idea; essa, però, non sarebbe espressione diretta dell’insegnamento conciliare.

L’esempio più probante è dato da Gaudium et spes, qualificata addirittura come “Costituzione pastorale”, tutta essendo un fermento ideale e propositivo a favore dell’uomo, della sua libertà e dignità, della sua presenza nella famiglia, nella società, nella cultura e nel mondo, allo scopo di conferire alla vita privata e pubblica un respiro ed una dimensione a misura umana. L’abbinamento dei due lemmi – Costituzione pastorale - è la novità più novità di tutto il Vaticano II; lo fu per gli stessi Padri conciliari, che prima d’approvarla discussero varie altre denominazioni. L’unica giustificazione dell’abbinamento si ha nella nota che fa seguito al titolo dell’inconsueto documento, definito “pastorale” sia perché, “sulla base di principi dottrinari, intende esporre l’atteggiamento della Chiesa nei riguardi del mondo e degli uomini d’oggi”, sia perché atteggiamento e principi dottrinari si compenetran a vicenda. Si dovrebbe dedurne che l’atteggiamento in parola è sempre l’applicazione e la traduzione pratica di principi dottrinari. Ma resta un problema capire di quali: forse di quelli sociologici, politici, economici, ma, almeno direttamente, non di quelli evangelici.

Il riferimento all’ uomo ed al mondo richiama d’ambedue la nativa finitezza, la creaturalità, la temporalità, il dinamismo, l’incessante evolversi, sul quale pende la spada di Damocle d’una sempre possibile involuzione. Ciò dà evidenza alla loro condizione variabile e contingente, ma anche alla problematicità dell’applicazione pratica di quei principi dottrinari che son in gran parte assoluti ed irriformabili. Anche la nota avverte una tale aporia e la segnala; ma non la risolve. Anzi, la complica nel momento stesso in cui stabilisce che “la Costituzione dovrà interpretarsi secondo le norme generali dell’ermeneutica teologica, tenendo conto… delle circostanze mutevoli cui sono intrinsecamente connesse le materie trattate”. In realtà, se la pastorale dovesse consistere in questo balletto di sì-e-no, una sua definizione sarebbe impossibile. E’ detto che al contingente va applicata l’indiscutibilità della dottrina; ma se codest’applicazione riducesse a contingente la dottrina o rendesse indiscutibile ed assoluto il contingente, stravolgerebbe l’uno e l’altro elemento : il sì a braccetto col no. Capisco perché già nell’Aula conciliare GS fu il testo più discusso e più ostacolato, cui poco valse l’affidamento a commissioni e sottocommissioni, ed altrettanto poco il passaggio attraverso ben quattro riformulazioni: la difficoltà, al limite della hibris, è nell’affermazione simultanea del sì e del no.

E’ forse dipeso da questa irrisolta aporia la problematicità che accompagna tuttora, dopo circa mezzo secolo di postconcilio, ogni discorso sulla pastorale. In pratica, essa serve per legittimar un po’ tutto ed il suo stesso contrario. Le due ermeneutiche conciliari, alle quali s’è spesso riferita l’analisi del Santo Padre, quella che fa del Vaticano II l’inizio d’un nuovo modo d’esser Chiesa e quella che lo collega invece alla vivente Tradizione ecclesiale, son ambedue legittimate dall’irrisolta aporia. Nelle due ermeneutiche, infatti, Il Vaticano II:

a.assume, sul piano dottrinario, l’aspetto e il valore d’un concilio dogmatico: l’una ne fa un super-concilio, l’altra la sintesi dottrinale di tutt’i precedenti concili;

a.sul piano pastorale, appare come un contenitore indifferenziato dalla sua stessa qualità pastorale, una sorta di “battitore libero” cui per ragioni pastorali è consentito di dire simultaneamente il sì ed il no.

S’impone, a questo punto, un giudizio sereno ed obiettivo sulla qualità complessiva del Vaticano II, che affrettatamente ed ingenuamente fu chiuso nell’area pastorale.


4 – I quattro livelli del Vaticano II – Chi ha dimestichezza non con la sola GS, ma con tutt’i sedici documenti conciliari, si rende ben conto che la varietà tematica e la corrispettiva metodologia collocano il Vaticano II su quattro livelli, qualitativamente distinti:

1.quello generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico;

2.quello specifico del taglio pastorale;

3.quello dell’appello ad altri Concili;

4.quello delle innovazioni.

Sul piano generico, il Vaticano II ha tutte le carte in regola per esser un autentico Concilio della Chiesa cattolica: il 21° della serie. Ne discende un magistero conciliare, cioè supremo e solenne. La qual cosa di per sé non depone per la dogmaticità ed infallibilità dei suoi asserti; anzi nemmeno la comporta, avendola in partenza allontanata dal proprio orizzonte.

Sul piano specifico la qualifica di pastorale ne giustifica i vastissimi interessi, non pochi dei quali eccedenti l’ambito della Fede e della teologia: p. es. la comunicazione sociale, la tecnologia, l’efficientismo della società contemporanea, la politica, la pace, la guerra, la vita economico-sociale. Anche questo livello appartien all’insegnamento conciliare ed è quindi supremo e solenne, ma non può vantare, per la materia trattata e per il modo non dogmatico di trattarla, una validità di per sé infallibile e irriformabile.

L’appello ad alcuni insegnamenti di precedenti Concili costituisce il terzo livello. E’ un appello talvolta diretto ed esplicito (LG 1 “praecedentium Conciliorum argumento instans”; LG 18: “Concilii Vaticani primi vestigia premens”; DV 1: “Conciliorum Tridentini et Vaticani I inhaerens vestigiis”), talvolta indiretto ed implicito, che riprende verità già definite: p. es. la natura della Chiesa, la sua struttura gerarchica, la successione apostolica, la giurisdizione universale del Papa, l’incarnazione del Verbo, la redenzione, l’infallibilità della Chiesa e del magistero ecclesiastico, la vita eterna dei buoni e l’eterna condanna dei cattivi. Sotto questo aspetto, il Vaticano II gode d’un’incontestabile validità dogmatica, senz’esser per questo un Concilio dogmatico, essendo la sua una dogmaticità di riflesso, propria dei testi conciliari citati.

Le innovazioni costituiscono il quarto livello. Se si guarda allo spirito che guidò il Concilio, si potrebbe affermare ch’esso fu tutto un quarto livello, animato com’era da uno spirito radicalmente innovatore, anche là dove tentava il suo radicamento nella Tradizione. Alcune innovazioni sono però specifiche: la collegialità dei vescovi, l’assorbimento della Tradizione nella Sacra Scrittura, la limitazione dell’ispirazione ed inerranza biblica, gli strani rapporti con il mondo ebraico ed islamico, le forzature della c.d. libertà religiosa. E’ fin troppo chiaro che se c’è un livello al quale la qualità dogmatica non è assolutamente riconoscibile, è proprio quelle delle novità conciliari.

5 – Conclusione – L’adesione al Vaticano II è, per quanto sopra esposto, qualitativamente articolata. In quanto tutti e quattro i descritti livelli esprimono un magistero conciliare, tutti e quattro pongono al singolo ed alle comunità cristiano-cattoliche il dovere d’un’adesione, che non necessariamente sarà sempre “di Fede”. Questa va soltanto alle verità del terzo livello e solo in quanto provengono da altri Concili, sicuramente dogmatici. Agli altri tre livelli è doveroso riservare una religiosa e rispettosa accoglienza, fino a che qualcuno dei loro asserti non urti contro la perenne attualità della Tradizione per evidente rottura con l’ “eodem sensu eademque sententia” di qualche sua variante formale. Il dissenso in questo caso, specie se sereno e ragionato, non determina né eresia, né errore. Quanto al secondo livello, quello pastorale, bisogna proprio pensare, come ho accennato nella nota n. 19, che i Padri conciliari non conoscessero l’ipoteca illuminista da loro stessi pagata con l’apertura del Concilio ad una pastorale la quale, fin dall’inizio, secondo la logica illuminista da cui dipendeva, aveva dato lo sgambetto a Dio per sostituirgli l’uomo e talvolta per identificare nell’uomo lo stesso Dio. Fu infatti la pastorale del XVIII sec. a mettersi dietro le spalle le motivazioni, le fonti, i contenuti ed il metodo della teologia dogmatica. E a spalancare le porte del fortilizio teologico al primato del naturale, del razionale, del temporale, del sociologico.

Con ciò non dico affatto che la pastorale del Vaticano II sia la medesima pastorale del XVIII sec. Ma sarebbe o ingenuo o disinformato chi, per non affermarne l’identità, negasse ogni loro parentela. Anche nel Vaticano II la matrice della pastorale restava quella illuminista, sia pur diversamente espressa e motivata. A toglierla dalla sabbie mobili dell’illuminismo fu Paolo VI che, in apertura del secondo periodo conciliare, la trasferì in una sfera romantica, per farne “un ponte verso il mondo contemporaneo”, comunicando ad esso “la sua interiore vitalità…come fenomeno vivificante e strumento di salvezza del mondo stesso”. L’Araba fenice diventava così un ponte, un coefficiente di vita, uno strumento di salvezza. Senza perdere, però, la sua parentela con la matrice illuminista, attraverso l’ispirazione neo-modernista dei suoi sostenitori. Non a caso da una teologia pastorale così intesa prese le mosse la secolarizzazione che ha poi trionfato nella presente fase postconciliare. E se dall’ignoranza dei suoi precedenti dipende l’indecisa nozione della pastoralità, dalla sua originaria parentela con essi dipenderebbe l’assurdo della dogmaticità d’un concilio che si autodefinisce semplicemente pastorale. L’Araba fenice in tal modo rivela il suo volto. Tutto sommato, sarebbe stato meglio se avesse continuato a nascondercelo.

Brunero Gherardini

Fonte: http://chiesaepostconcilio.blogspot.com

martedì 4 gennaio 2011

«Notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza» (PIo XII)

Pio XII e la liturgia: la Mediator Dei
di Michele Terlizzi

Lettera enciclica del 1947, la Mediator Dei da un lato ripropone in termini semplici e chiari la dottrina cattolica sul Santo Sacrificio della Messa e, più in generale, sulla liturgia, dall’altro condanna le novità che in alcuni ambienti cattolici già andavano facendosi strada («Notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza»).
Dopo aver ricordato che «la purezza della fede e della morale deve essere la norma caratteristica di questa sacra disciplina, e che la sacra Liturgia è pertanto il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre, come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all’Eterno Padre», passa a condannare l’assurda tesi (oggi largamente sostenuta) di una sorta di sacerdozio universale di tutti i fedeli: «Ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l’imposizione delle mani, è conferita la potestà sacerdotale […]. Perciò il sacerdozio esterno e visibile di Gesù Cristo si trasmette nella Chiesa non in modo universale, generico e indeterminato, ma è conferito ad individui eletti, con la generazione spirituale dell’Ordine, uno dei sette Sacramenti […].

È necessario, Venerabili Fratelli, spiegare chiaramente al vostro gregge come il fatto che i fedeli prendono parte al Sacrificio Eucaristico non significa tuttavia che essi godano di poteri sacerdotali. Vi sono difatti, ai nostri giorni, alcuni che, avvicinandosi ad errori già condannati, insegnano che nel Nuovo Testamento si conosce soltanto un sacerdozio che spetta a tutti i battezzati, e che il precetto dato da Gesù agli Apostoli
nell’Ultima Cena di fare ciò che Egli aveva fatto, si riferisce direttamente a tutta la Chiesa dei cristiani […]. Essi ritengono, in conseguenza, che il Sacrificio Eucaristico è una vera e propria “concelebrazione” e  che è meglio che i sacerdoti “concelebrino” insieme col popolo presente piuttosto che, nell’assenza di esso, offrano privatamente il Sacrificio […]. Il popolo […] non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali».

Nel capitolo intitolato “Innovazioni temerarie” condanna diverse innovazioni che sono quelle tipiche del messale di Paolo VI: «È severamente da riprovarsi il temerario ardimento di coloro che di proposito introducono nuove consuetudini liturgiche o fanno rivivere riti già caduti in disuso e che non concordano con le leggi e le rubriche vigenti. Così, non senza grande dolore, sappiamo che accade non soltanto in cose di poca, ma anche di gravissima importanza; non manca, difatti, chi usa la lingua volgare nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico, chi trasferisce ad altri tempi feste fissate già per ponderate ragioni; chi esclude dai legittimi libri della preghiera pubblica gli scritti del Vecchio Testamento, reputandoli poco adatti ed opportuni per i nostri tempi.

L’uso della lingua latina come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina […]. È fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di mensa; chi vuole eliminare dai paramenti liturgici il colore nero; chi vuole escludere dai templi le immagini e le statue sacre; chi vuole cancellare nella raffigurazione del Redentore crocifisso i dolori acerrimi da Lui sofferti; chi ripudia e riprova il canto polifonico anche quando è conforme alle norme emanate dalla Santa Sede».

Segue poi la condanna dell’archeologismo liturgico che invece è adoperato oggi per giustificare alcuni cambiamenti: «La Liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore sia in se stesso sia in relazione ai tempi posteriori ed alle nuove condizioni verificatesi […]. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l’eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del “deposito della fede” affidatole dal suo Divino Fondatore, a buon diritto condannò».

Passa poi a ricordare, contro quanti asserivano (e asseriscono) essere la Messa una semplice commemorazione: «L’augusto Sacrificio dell’altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima. Una […] e identica è la vittima; è diverso soltanto il modo di fare l’offerta. Identico, quindi, è il sacerdote, Gesù Cristo, la cui sacra persona è rappresentata dal suo ministro […]. Si allontanano quelli che asseriscono che non si tratta soltanto di un Sacrificio, ma di un Sacrificio e di un convito di fraterna
comunanza, e fanno della santa Comunione compiuta in comune quasi il culmine di tutta la celebrazione».

Si condanna poi, come già fece il Concilio di Trento contro Lutero, l’aberrante  tesi secondo la quale sono da riprovare le messe private, e le nuove tendenze dell’arte sacra: «Non possiamo fare a meno, però, per Nostro dovere di coscienza, di deplorare e riprovare quelle immagini e forme da alcuni recentemente introdotte, che sembrano essere depravazione e deformazione della vera arte, e che talvolta ripugnano apertamente al decoro, alla modestia ed alla pietà cristiana, e offendono miserevolmente il genuino sentimento religioso; esse si devono assolutamente tener lontane e metter fuori dalle nostre chiese come in generale, tutto ciò che non è in armonia con la santità del luogo».

Giunti alla fine, non resta che concludere: Pio XII è stato sì un grande Papa, ma soprattutto l’ultimo Papa di un’era che non è tramontata per sempre, ma tornerà a risorgere quando Dio vorrà. La Santa Vergine a Fatima ha predetto che il suo Cuore Immacolato avrebbe trionfato e quindi, da parte nostra, non possiamo far altro che pregare Maria Santissima, i santi e questo grande Pontefice affinché quel giorno tantoatteso non tardi a venire.

lunedì 3 gennaio 2011

visione o normalizzazione?

Come non detto
di P. Giovanni Scalese, barnabita

 
Due giorni fa ho pubblicato l’articolo Il “cortile dei gentili” (che era stato scritto nel mese di ottobre per l’Eco dei Barnabiti), nel quale facevo riferimento anche al dialogo interreligioso e allo “spirito di Assisi”, sottolineando le differenze tra il pontificato di Benedetto XVI e quello di Giovanni Paolo II. Fra l’altro, affermavo: «Il 19 aprile 2005 Joseph Ratzinger è diventato Papa Benedetto XVI; e da allora non ci sono state, come era prevedibile, nuove giornate di Assisi». Era sottinteso: Non ci sono state — e non ci saranno piú! — nuove giornate di Assisi.

E invece ieri sono stato smentito: il Papa, durante l’Angelus di Capodanno, ha annunciato che a ottobre si recherà ad Assisi per una nuova Giornata mondiale di preghiera per la pace, in occasione del 25° anniversario della prima, nel 1986. Se devo essere sincero, ci sono rimasto male. Non perché consideri “eretiche” questo tipo di iniziative: è ovvio che i Pontefici, nell’intraprenderle, lo fanno con le migliori intenzioni e mettendo bene in chiaro lo spirito che le deve animare. Ma non è questo il punto.

Il problema è un altro (ed è ricorrente, purtroppo): che cosa “passa” al grande pubblico, di queste iniziative? che cosa rimane nell’immaginario collettivo? L’idea che una religione vale l’altra. Ovviamente il Papa non vuole che passi questo messaggio; ma di fatto è ciò che succede. L’uomo non comunica solo con le parole, ma anche con i gesti. E i gesti, il piú delle volte, sono ambigui. È per questo che vanno spiegati; ma molto spesso anche la spiegazione piú precisa non è sufficiente: talvolta sono necessari gesti di segno opposto per far passare il messaggio giusto.

Mi spiego. Quando la Chiesa, nel Concilio di Trento, si oppose all’uso della lingua volgare nella liturgia o alla comunione sotto le due specie, non lo fece perché tali cose, in sé stesse, fossero cattive (tanto è vero che attualmente noi le pratichiamo senza problemi); ma semplicemente perché esse avrebbero veicolato il messaggio sbagliato: la Messa vale solo se i fedeli capiscono ciò che si dice (agisce ex opere operantis); la comunione sotto una sola specie non è completa. E allora che fece la Chiesa? Spiegò, certo, la retta dottrina (i sacramenti sono efficaci di per sé, agiscono ex opere operato; Cristo è presente nella sua pienezza sotto ciascuna delle specie eucaristiche); ma a ciò aggiunse l’obbligo di celebrare la Messa in latino e di ricevere la comunione sotto la sola specie del pane. A quell’epoca non si parlava di pastorale, ma si aveva un senso pastorale che noi ci sogniamo. Oggi ci riempiamo la bocca di pastorale, ma poi non ci rendiamo conto di quanta confusione possono provocare certe iniziative.

Qualcosa del genere è accaduto anche con il libro-intervista Luce del mondo. Soprattutto dopo la precisazione della Congregazione per la dottrina della fede, si può difficilmente affermare che la risposta del Papa a proposito del preservativo fosse moralmente erronea. Il problema è ancora una volta: qual è il messaggio che è passato alla gente? Che l’uso del profilattico, almeno in certe situazioni, è giustificato. In barba alle reali parole pronunciate dal Papa, alle precisazioni di Padre Lombardi e alle note dottrinali del Sant’Uffizio!

Ma mi veniva da fare anche un’altra considerazione. C’è qualcuno che si chiede se Benedetto XVI e il Card. Ratzinger siano la stessa persona. Talvolta, confesso, me lo sono chiesto anch’io. Ma poi ho allargato la riflessione al passato (ormai comincio a non essere piú tanto giovane), e mi sono accorto che quanto sta accadendo al pontificato di Benedetto XVI è, piú o meno, lo stesso che accadde anche al pontificato di Giovanni Paolo II. Anche allora, quante attese, quante speranze all’inizio del pontificato! E poi, a poco a poco, quel pontificato si appiattí sull’ortodossia del “politicamente corretto”. Ho l’impressione che stia succedendo la stessa cosa anche oggi. Non nascondo di essere stato fra i “tifosi” del Card. Ratzinger durante il conclave (nonostante che molti escludessero in maniera categorica la sua elezione). Non potete immaginare la gioia di vederlo alla loggia di San Pietro quel 19 aprile 2005. Ancora una volta tante attese, tante speranze… E ancora una volta mi pare che si stia compiendo il progressivo adeguamento al “politicamente corretto”. Non vorrei essere frainteso: non sto muovendo accuse né a Giovanni Paolo II né a Benedetto XVI; sto semplicemente facendo una constatazione e cercando di comprendere il motivo che può spiegarla.

Una risposta abbastanza semplice potrebbe essere: beh, man mano che si sale in alto, si ha una visione sempre piú ampia della realtà; certe cose che non si possono capire da soldati semplici, si riescono a capire una volta divenuti ufficiali. Può darsi che sia cosí.

Non escluderei però che ci possa essere anche una spiegazione d’altro genere, diciamo di carattere “cospirativo” (sono un inguaribile complottista). Nessuno mi toglierà di mente che il Potere cerchi di attuare, nei confronti di ciascun pontificato, una sorta di “normalizzazione”. Che cos’è stato, in fondo, l’attentato a Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981? Con Benedetto XVI non si è fatto ricorso alle armi da fuoco, ma ad armi non meno lesive (i processi mediatici): i primi cinque anni di pontificato sono stati un attacco continuo, che non può essere considerato casuale; è ovvio che dietro c’era una regia ben organizzata.

A un certo punto, sia nel caso di Papa Wojtyla, sia nel caso di Papa Ratzinger, tutto è cambiato. Nel primo caso, la seconda parte del pontificato è stata una continua apoteosi, culminata nel “Santo subito!” dei funerali. Ora, non so se ve ne siate accorti, da qualche tempo le cose stanno cambiando anche per Benedetto XVI: gli attacchi sono improvvisamente cessati; il Corriere della sera sembra diventato un’edizione locale dell’Osservatore Romano e la BBC una sezione staccata della Radio Vaticana. Che cosa è successo? Il Papa sta semplicemente recitando lo stesso copione che era stato scritto per il suo predecessore (visita alle sinagoghe e alle moschee, visita ad Auschwitz e allo Yad Vashem, giornate di preghiera con le altre religioni, ecc.). Cosí va bene: questo è il Papa che piace a chi ha in mano le sorti dell’umanità. A questo punto Benedetto XVI può anche permettersi il lusso di fare il tradizionalista in campo liturgico: un po’ di folclore non guasta...

Che dire? Cosí va il mondo. E forse dobbiamo farci il callo. Dopo tutto, la Chiesa è sopravvissuta a due Giornate di Assisi; volete che non sopravviva alla terza?
 

domenica 2 gennaio 2011

una “trappola mortale: lo spirito del liberalismo nella religione” (Beato Card. J.H. Newman)

La trappola mortale per il cattolicesimo


Il 12 maggio del 1879 don John Henry Newman, dell’Oratorio di San Filippo Neri, fu informato che Leone XIII lo aveva eletto cardinale. Il 13 don Newman si recò in Vaticano per ricevere dal Papa la porpora cardinalizia. Newman rispose con un discorso detto del “biglietto”, poiché annotato su un piccolo foglietto a mo’ di scaletta. Il testo integrale del discorso venne trasmesso al The Times di Londra e il 14 maggio anche L’Osservatore Romano lo pubblicò integralmente, esso è stato ripreso e ripubblicato da L’Osservatore Romano del 9 aprile 2010. Il neo cardinale disse che la sua vita apostolica era tutta tesa a lottare contro “una grande sciagura” e una “trappola mortale: lo spirito del liberalismo nella religione”. In breve il cattolicesimo liberale condannato già da Gregorio XVI nella Mirari vos del 1832, da Pio IX nel Sillabo e nella Quanta cura del 1864 e poi da Leone XIII nella Immortale Dei del 1885 e nella Libertas praestantissimum del 1888, era considerato anche da Newman (1879) il pericolo principale per il cattolicesimo, poiché «il liberalismo cattolico è la dottrina secondo la quale non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un ‘credo’ vale quanto un altro, e ciò è contro al riconoscimento di una religione come unica vera. Esso insegna che tutte devono essere tollerate per principio e non de facto, perché si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale». Newman anticipa la condanna del modernismo come esperienza o sentimento religioso, fatta circa trenta anni dopo nel 1907 da san Pio X (Pascendi). Da questi errori: il sentimentalismo, la tolleranza, l’opinionismo. e dal principio fondamentale del liberalismo, che fa della libertà soggettiva un Assoluto e che conduce inevitabilmente all’ateismo, mettendo la libertà dell’uomo al posto del Dio trascendente, secondo Newman, sarebbe potuta scaturire la “grande apostasia”. Il liberalismo, infine, secondo Newman, si presenta sotto le apparenze di umanitarismo filantropico e inganna facilmente gli ingenui con il richiamarsi ai princìpi di giustizia, tolleranza, onestà naturale. In realtà esso cerca di mettere da parte e, se possibile, di cancellare totalmente il cristianesimo. Non vi è stato mai piano così abilmente congegnato dall’inimicus homo e con maggiori possibilità di riuscita. È lo stesso pensiero che ha espresso Benson nel suo Il padrone del mondo. Tuttavia se il futuro prossimo della Chiesa e del mondo suscitavano nel cardinale pensieri tristi e preoccupati, mai gli è venuta meno la fiducia nel futuro remoto, in cui Cristo trionferà del male e dell’apostasia generale. La Chiesa uscirà, secondo Newman, salva da questa “calamità orrenda” del liberalismo.