venerdì 24 dicembre 2010

Buon Natale a tutti!


«Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia»



 «Ascoltiamo dunque che cosa dice l’angelo ai pastori quando apparve avvolto da una grande luce: Non temete, vi annunzio una grande gioia che sarà grande per tutto il popolo. Veramente grande gioia, perché gioia celeste, gioia eterna, gioia che non è turbata da alcuna tristezza, gioia della quale possono godere solo gli eletti. Che sarà grande per tutto il popolo: non per tutto il popolo dei Giudei né per tutto il popolo dei pagani, ma per tutto il popolo che, riunito dai Giudei e dalle genti di tutto il mondo nell’unica confessione di Cristo, è detto cristiano, in grazia dell’unica stessa conoscenza dei misteri di Cristo. Di esso il profeta dice: Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce (Is 9, 2). Oggi è nato per voi nella città di Davide il Salvatore che è il Cristo Signore. ... Per noi dunque che abitiamo nell’ombra della morte, è sorta la Luce della vita»   (s. Beda il  Venerabile, Omelia , 6 passim)

giovedì 23 dicembre 2010

Mons. Schneider invoca un nuovo Sillabo

Un uragano vero e proprio si è scatenato il 17 dicembre 2010 a Roma, a pochi passi dalla Basilica di San Pietro: un Vescovo ha proposto niente di meno che una riscoperta del magistero infallibile della Chiesa.

Dal dicembre 16 è tenuto a Roma, infatti, un grande simposio dal titolo Il Vaticano II, un concilio pastorale - Analisi storica, filosofica e teologica. Voluto dai coraggiosi Francescani della Immacolata, questa conferenza si è tenuta nella sala conferenze di Santa Maria Bambina dietro il colonnato del Bernini, vicino al Palazzo del Sant'Uffizio, in un silenzio virtuale dei media, nonostante l'attualità del tema sotto il pontificato di Benedetto XVI e la qualità dei relatori.

Due gli interventi previsti il primo giorno: quello di Mons. Gherardini, autore di Concilio Vaticano II, un dibattito aperto e il professor Roberto De Mattei, storico italiano, autore di un volume di recente dal titolo Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta. Entrambi hanno risposto alle critiche che il loro lavoro ha sollevato, paradossalmente in quell'area conservatrice, in cui si trovano i pochi difensori della infallibilità del Concilio.

Il 17 dicembre, è stato monsignor Schneider, vescovo ausiliare di Karaganda, che ha creato l'evento nel suo intervento sul tema del culto di Dio, come base teologica della pastorale conciliare. Offrendo una lunga antologia di citazioni selezionate, teologicamente molto ortodosse, estratte dai testi conciliari, ha presentato all'uditorio dei testi scelti del Concilio Vaticano II, "più ortodossi di Trento". La captatio benevolentiae è stata particolarmente efficace: i presenti pendevano dalle labbra del Vescovo aspettando il seguito. E' statoallora allora, che denunciando l'errata interpretazione del Concilio poi nel periodo post-conciliare, il Vescovo ha concluso il suo intervento proponendo ... la scrittura di un nuovo Sillabo che condanni infallibilmente "gli errori di interpretazione del Concilio Vaticano II" .

Perché, secondo il vescovo Schneider, solo il Magistero supremo della Chiesa (il Papa o un nuovo Concilio ecumenico), possono correggere gli abusi e gli errori derivanti dal Concilio e la sua corretta comprensione e la sua ricezione, alla luce della Tradizione cattolica. Di qui la sua richiesta di un nuovo Sillabo che presenti gli errori condannati e a fronte la loro interpretazione ortodossa.

Come tanti altri da ormai quarant'anni, ci si è appellati alla decisione infallibile del Papa per una "riformulazione" del Vaticano II. Sempre che le personalità ufficiali rispondano alla chiamata.
 

mercoledì 22 dicembre 2010

concluso a Roma il Convegno sul Concilio Vaticano II: primi resoconti

“Il Concilio Vaticano II e la sua giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa” ha costituito l’oggetto di un importante Convegno di studi, organizzato dal 16 al 18 dicembre dall’Istituto dei Frati Francescani dell’Immacolata. Riportiamo un resoconto del convegno del prof. Fabrizio Cannone, che ne ha seguito i lavori.

Il Convegno sul Concilio Vaticano II dei Francescani dell’Immacolata, svoltosi a Roma dal 16 al 18 dicembre, ha costituito una delle prime risposte all’invito al dibattito e all’analisi critica sul Vaticano II, rivolto da Benedetto XVI nel suo ormai celebre discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. Il dibattito si è recentemente acceso, anche sulla stampa, dopo la pubblicazione, avvenuta all’inizio di dicembre 2010, dello studio storico-sistematico sul Concilio del professor Roberto de Mattei (Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010). In questo contesto, il convegno dei Francescani dell’Immacolata ha rappresentato una eccellente sintesi delle ricerche storico-teologiche sul Concilio, sulle ermeneutiche cui ha dato luogo, sul valore dei suoi documenti ed anche sui suoi punti meno chiari e più problematici.
I lavori sono stati aperti il 6 dicembre da S. E. mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro e noto teologo e apologeta, che ha aperto i lavori spiegando brillantemente le cause della perdita dell’identità cristiana nel contesto della modernità occidentale. «L’uomo che il Concilio incontra – ha detto mons. Negri – porta sulle sue spalle il fallimento della modernità». Il prelato ha fatto notare che la cultura cristiana nell’epoca moderna si è dapprima scontrata con la cultura secolare, ma a poco a poco ha finito per essere assorbita da quest’ultima, scolorendo i suoi connotati e uniformandosi alle linee di pensiero del razionalismo e dell’illuminismo. Il Concilio poteva rappresentare un’occasione propizia per ricentrare la cultura cattolica sulla Tradizione ma, in quanto minato da contrapposizioni, lotte intestine, letture secolarizzate e peregrine applicazioni, esso non ha potuto svolgere il suo ruolo, e nel post-Concilio ciò che ha prevalso è stata non la fede e l’identità, ma l’aggiornamento e l’adattamento alla sterile mentalità del mondo. Solo un ritorno all’identità potrà arginare la crisi epocale di fede che si registra da alcuni decenni.

Nella stessa mattinata ha preso la parola S. E. mons. Brunero Gherardini, grande esponente della scuola teologica romana, recente autore di due libri di capitale importanza, dedicati il primo al Concilio stesso (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice 2009) e il secondo al concetto di Tradizione, dal punto di vista della teologia cattolica (Quod et tradidi vobis La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice 2010). «Il Concilio Vaticano II – ha affermato mons. Gherardini – non fu un Concilio dogmatico e neppure disciplinare, ma soltanto un concilio pastorale, e il genuino significato della sua pastoralità è ancora tra la nebbia». Nell’approccio al Concilio occorre distinguere quattro diversi livelli che esprimono tutti, ma con qualità teologica diversa, il suo supremo Magistero. Accennare in questa sede alla gradazione suggerita da Gherardini significherebbe tradirne la precipua acribia teologica, così ci limitiamo a segnalare il fatto che, secondo questa esegesi, solo uno di questi livelli, corrispondente al terzo, comporta una incontestabile validità dogmatica, anche se solo di riflesso, dedotta da precedenti definizioni: questo livello coincide con le notevoli citazioni che il Concilio fa di dottrine già solennemente definite che trattano di temi di fede e di morale. Gli altri ambiti del magistero conciliare, per la loro natura pastorale, per la loro intrinseca novità o per la loro contestualizzazione storica contingente, non comportano né l’infallibilità, né la definitività, e dunque richiedono un certo ossequio della mente, ma non «l’obbedienza della fede». L’errore di molti teologi del post-Concilio è stato proprio quello di dogmatizzare un Concilio che si volle pastorale, facendone altro rispetto a ciò che si prefisse chi lo convocò.

Nella seconda parte della mattinata, padre Rosario Sammarco FI, ha parlato della Formazione permanente del Clero alla luce della Presbyterorum ordinis. Con un linguaggio diretto e coinvolgente l’oratore ha mostrato come questa giusta indicazione conciliare si sia smarrita nei meandri del post-Concilio segnato da quella evidente rottura con la Tradizione causata, come direbbe Benedetto XVI, dalla “teologia moderna”. Significativo il fatto, segnalato dal teologo, della scomparsa a partire dagli anni ’70 della discussione dei “casi di morale”: questa prassi importante consigliata da santi come Carlo Borromeo e che si generalizzò durante l’’800, costituendo un punto di riferimento per confessori e pastori d’anime, scomparve improvvisamente negli anni ’70 e fu perfino cancellata dal nuovo Codice del 1983. Segno di quanto la rottura e la discontinuità non furono solo tra pre-Concilio e Concilio, ma anche tra Concilio e post-Concilio. Il post-Concilio però nel contraddire il Concilio, per esempio nell’uso del latino liturgico raccomandato dall’assise e disatteso nei fatti, non fu una “germinazione spontanea”, ma fu voluto e attuato malamente dalle autorità competenti, proprio per l’influenza della svolta antropologica della teologia e della religione stessa. Dopo padre Sammarco, ha tenuto una lezione magistrale il rev. prof. Ignacio Andereggen, docente alla Gregoriana e filosofo cattolico di primo livello.
Il professore ha mostrato con maestria l’essenza filosofica della modernità a partire dall’analisi di 4 autori fondamentali: Cartesio, Kant, Hegel e Freud. In tutti costoro, pur con differenze che li rendono assolutamente non omogenei, vi è la presenza di quel relativismo epistemologico che fu tipico tratto del cosiddetto “Rinascimento” e in parallelo il rifiuto della tradizione filosofica come tale. Con questi autori, ogni volta ci si trova davanti ad un nuovo inizio, segno che la filosofia moderna e contemporanea, nel rigetto del patrimonio di pensiero più comune dell’umanità, non si fonda che su se stessa. Il rifiuto poi del pensiero scolastico e della metafisica ne è uno degli assi portanti. Quanto ha influito questa pseudo-filosofia sul Concilio? Andereggen non l’ha precisato ma è evidente che molti vescovi e soprattutto molti periti, specie di aria francese (Chenu, Congar, etc.) e tedesca (Rahner, Küng, etc.) ne erano notevolmente pervasi. Da qui quell’insorgere, come Maritain segnalerà già nel 1966, a solo un anno dalla chiusura dei lavori conciliari, del “neo-modernismo” effettivamente più subdolo e più pericoloso dell’antico, anche perché meno esplicitamente assunto e dichiarato. Senza una retta filosofia, ha spiegato sapientemente Andereggen, è impossibile fare teologia: senza una teologia corretta poi, si corrompe anche la dottrina della fede.
Nel pomeriggio dello stesso giorno il prof. Roberto de Mattei ha mostrato nella sua relazione che il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa. Il nesso tra Concilio e post-Concilio, ha affermato il prof. de Mattei, non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965, e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978 e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese. La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio, secondo de Mattei, è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso, potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. «Ancora oggi – ha concluso lo storico romano – viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”».
Lo storico francese Yves Chiron, la cui documentata relazione è stata letta da frà Juan Diego FI, ha poi parlato della volontà di certi vescovi e cardinali sotto Pio XI e Pio XII di convocare un nuovo Concilio o piuttosto di completare il Vaticano I, arrestato brutalmente dall’invasione di Roma del settembre 1870. I pontefici, pur assai interessati a queste proposte, le hanno infine respinte per evitare pericoli di frazionamento e “democratizzazione” dell’Assemblea deliberante. Interessanti i documenti portati alla luce dallo Chiron circa i temi che si intendevano trattare nell’eventuale Sinodo: essi erano simili a quelli poi proposti dalla Curia Romana sotto Giovanni XXIII, i quali in blocco furono respinti dal dibattito in aula per l’opposizione manifestata da certi influenti padri progressisti. Il 17 dicembre la giornata è stata aperta da un’interessante relazione storica su Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II del padre Paolo Siano FI, il quale ha mostrato come l’ottimismo pastorale verso l’uomo e verso il mondo suggerito dai testi conciliari è stato usato da varie lobbies come grimaldello per condizionare lo svolgimento e la ricezione del Vaticano II. L’autore ha documentato come i fenomeni di crisi dottrinale, spirituale, liturgica e missionaria del post-Concilio hanno i loro prodromi in alcune idee e azioni di veri Padri e periti dell’assise conciliare. Padre Siano ha proposto come “medicinale” alla crisi almeno due “farmaci”: una Mariologia “forte” (in linea con la Tradizione e il Magistero della Chiesa) e una liturgia più orientata (anche visibilmente) a Cristo Crocifisso.
Di seguito ha tenuto una relazione, concisa ma densa, il rev. prof. Giuseppe Fontanella FI dal titolo Il Perfectae caritatis e la vita religiosa. Dove hanno condotto gli esperimenti pastorali?. Secondo il relatore, il documento conciliare si situa in linea con lo sviluppo teologico raggiunto circa il tema della vita religiosa, ma tante realizzazioni successive sembrano aver ceduto allo spirito della secolarizzazione e dell’orizzontalismo. I religiosi in quest’ottica dovrebbero diminuire le pratiche propriamente religiose, e aumentare l’inserimento nel mondo, allontanandosi però in tal modo dallo spirito dei fondatori. Ancora una volta i numeri parlano più che le analisi cervellotiche. Malgrado la tanto ripetuta “vocazione universale alla santità” gli istituti di perfezione hanno perso larga parte dei loro membri, soprattutto quelli che più hanno innovato rispetto ai loro tradizionali usi e costumi. Successivamente, S. E. mons. Atanasius Schneider, vescovo ausiliare in Kazakhstan, ha tenuto una profonda relazione sul senso pastorale del Concilio, mostrando, attraverso numerose citazioni, che nel Concilio esiste uno spirito teocentrico, apostolico, penitenziale e missionario, anzi la missionarietà ne sarebbe quasi la nota caratteristica.
È innegabile che il Vaticano II, letto in quest’ottica, abbia una gran quantità di bei testi di spiritualità e di religiosità, di dottrina omogenea alla grande Tradizione della Chiesa. Il problema secondo il Prelato sta nella cattiva interpretazione di certi suoi passaggi meno chiari: è evidente altresì che quando si parla di interpretazione, specie se universale e autorevole, non si può far riferimento ad una scuola particolare, come per es. quella di Bologna, ma ci si deve riferire alle commissioni post-conciliari e agli stessi episcopati. E dunque su costoro ricade la responsabilità di certe letture minimaliste e arbitrarie. In ogni caso, mons. Schneider ha coraggiosamente chiesto un nuovo Sillabo degli errori avvenuti nella interpretazione del Concilio e se questo Sillabo un giorno sarà pubblicato dalla Massima Autorità di certo esso gioverà a tutti i cattolici.
Una conferenza di grande valore teologico è stata poi quella di padre Serafino Lanzetta, giovane teologo dei Francescani dell’Immacolata. Padre Lanzetta ha fatto uno status quaestionis sull’approccio teologico al Vaticano II attraverso l’analisi della ricezione del Concilio in varie e diverse scuole teologiche post-conciliari. Quello che è emerso in sede di conclusioni è che il Concilio, sulle cui rette intenzioni non è dato di dubitare a nessuno, ha però favorito le opposte ermeneutiche post-conciliari con l’aver abbandonato, o almeno tralasciato, un approccio metafisico alle realtà della fede e della morale. Ciò che il Concilio insegna, lo insegna usando un modo descrittivo e spesse volte solo allusivo, e questo ha permesso ai novatori di estrapolare conclusioni teologiche aberranti di cui il Vaticano II non è responsabile, se non a causa della poca chiarezza e della poca precisione terminologica.
Le numerose ermeneutiche in atto e le variegate griglie interpretative, per esempio, erano impossibili da applicare ai testi del Vaticano I, e se sono state applicate con relativa facilità al Vaticano II, ciò è avvenuto per un certo rigetto del linguaggio scolastico tipico della tradizione teologica precedente detta sprezzantemente “manualistica”. Ad essa si volle sostituire il “resourcement” (De Lubac) cioè il ritorno ai Padri: ma i Padri in molti punti di teologia e di filosofia ne sapevano meno di noi, stante il progresso teologico nella comprensione della immutabile Rivelazione Divina e l’apporto decisivo del Tridentino e del Vaticano I in fatto di dogmatica. Il ritorno ai Padri e alle loro formule, alla liturgia dei primordi e alla Scrittura sa tanto di biblicismo, di fideismo e di archeologismo: tutto ciò che respingeva profeticamente Papa Pio XII nell’Humani generis (1950).
Ha tenuto quindi un’importante relazione il rev. don Florian Kolfhaus, della Segreteria di Stato. Il teologo tedesco ha, svolto una critica “dall’interno” ai documenti conciliari mostrando che il loro vario e differenziato valore magisteriale corrisponde alla loro maggiore o minore autorevolezza, la quale a volte si riduce al mero precetto disciplinare. Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Esso non affermò nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, e promulgò differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità. Alcuni suoi documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, Nostra Aetate sulle religioni non cristiane e Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, ha sottolineato don Kolfhaus, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete. In questo sta la grande novità del Vaticano II: contrariamente a tutti gli altri concili, che esponevano dottrina o disciplina, esso supera queste categorie. Si tratta di una esposizione dottrinale che non vuole tuttavia dare definizioni o delimitazioni in funzione contraria a degli errori, ma è rivolta all’agire pratico condizionato dal tempo. Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa.
La proposta di don Kolfhaus è stata quella di denominare la sfuggente espressione di magistero pastorale “munus predicandi”, ben delimitata rispetto al “munus determinandi”. Questo significa: annuncio della dottrina, non definizione dottrinale; legato al tempo e conforme al tempo, non immutabile e non sempre uguale; vincolante, ma non infallibile. Il 18 dicembre, ultimo giorno dei lavori, S. E. mons. Agostino Marchetto, parlando su Rinnovamento all’interno della Tradizione, ha ribadito la contraddittorietà delle analisi della scuola progressista di Bologna dei vari Dossetti, Alberigo, Melloni, etc., negando che per quanto riguarda il rapporto Concilio – post-Concilio, si possa parlare di un post hoc propter hoc. Resta da capire come è stato possibile ad una scuola teologica ultra-minoritaria di imporsi quasi ovunque nell’insegnamento universitario cattolico, nelle facoltà di teologia e di storia ecclesiastica, nelle riviste più lette dai teologi, dai pastori e perfino da fedeli.

Il rev. mons. prof. Nicola Bux, da parte sua, ha egregiamente parlato della scomparsa dello ius divinum nella liturgia: anche questa scomparsa, data dal Vaticano II e dall’immediato post-Concilio. Il liturgista pugliese ha notato che la Sacrosanctum Concilium permetteva una interpretazione in conformità colla tradizione liturgica cattolica, espressa ancora nel 1963 dalla Veterum Sapientia di Giovanni XXIII, ma nei fatti prevalse la logica della desacralizzazione e dell’innovazione. Infatti, tra il 1965 e il nuovo messale del 1970 vi sono state, da parte di organi diversi, come la Congregazione della fede e quella del Culto, delle circolari e delle autorizzazioni non solo diverse ma perfino contraddittorie e questo ha prodotto un caos liturgico da cui l’intera Chiesa non si è mai più ripresa. Don Bux ha incoraggiato i presenti alla duplice fedeltà alla tradizione liturgica, riabilitata dal recente motu proprio Summorum Pontificum, e all’esempio del Sommo Liturgo che a poco a poco sta riportando ordine e decoro nella celebrazione del Culto Divino.

Il neo-cardinale Velasio De Paolis, illustre canonista, ha concluso con vibranti parole in difesa del diritto ecclesiastico, giudicato negli anni del post-Concilio addirittura anti-evangelico. La legge invece è fonte di libertà e di sicurezza, e l’anomia (assenza di legge o di legge certa) crea malintesi, ingiustizie, discordie e rotture. Quando il diritto divino e canonico tornerà a regnare tra gli ecclesiastici l’attuale confusione generalizzata si attenuerà e si aprirà una nuova fase per la Chiesa.
I lavori, sapientemente moderati, nel corso dei tre giorni, dal padre Alessandro Apollonio FI, sono stati chiusi da mons. Gherardini, che ha ribadito come il Concilio Vaticano II non fu un unicum, un “blocco dogmatico”. Fu un Concilio pastorale e sul piano pastorale va collocato e giudicato, senza forzature ermeneutiche, che ne impongono la dogmatizzazione.

È questo il messaggio conclusivo del convegno romano destinato certamente a fare data, per il numero e la qualità dei relatori e degli ascoltatori, tra i quali si distinguevano S. Emin. il cardinale Walter Brandmüller e il segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, S. E. mons. Guido Pozzo. Fu del resto proprio il cardinale Ratzinger a dichiarare già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Tuttavia, proprio questo “concilio pastorale” – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili».

martedì 21 dicembre 2010

luce sulla "Luce" nel solstizio d'inverno

La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per dare un'interpretazione autorevole ad un testo non magisteriale, assegnandoli così quel valore che gli mancava: sarebbe interessante sapere quale grado di approvazione pontificia ha ricevuto tale nota. Comunque dobbiamo registrare 1) la Segreteria di Stato tramite l'Osservatore Romano ha fatto filtrare nel giorni del Concistoro una traduzione parziale e abborracciata; 2) grazie a ciò tutto il mondo tramite i mass-media ha registrato quella che è stata fatta passare ad arte come una “svolta sul preservativo” (titolo de “Il Giornale”); 3) nessuno ha parlato del Concistoro né del pre-Concistoro dove sono state dette cose molto importanti; 4) si corre ai ripari e giustamente ci si affida alla Congregazione per la Dottrina della Fede che sforna il testo attuale il quale avrà una risonanza immensamente inferiore dal punto di vista dell’informazione. Conclusioni della vicenda: 1) occorre maggiore prudenza nel trattare certi argomenti: ne va del bene delle anime; 2) in Vaticano si registra un’evidente incapacità di gestire il mondo dell’informazione; 3) in Segreteria di Stato qualcuno pasticcia per colpa o per dolo; 4) il Papa, si licet, non dia interviste né sull’aereo durante i viaggi né in altro modo: è un genere che non gli appartiene ed è alquanto pericoloso.

Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla banalizzazione della sessualità

A proposito di alcune letture
di "Luce del mondo"
In occasione della pubblicazione del libro-intervista di Benedetto XVI, Luce del mondo, sono state diffuse diverse interpretazioni non corrette, che hanno generato confusione sulla posizione della Chiesa cattolica riguardo ad alcune questioni di morale sessuale. Il pensiero del Papa non di rado è stato strumentalizzato per scopi e interessi estranei al senso delle sue parole, che risulta evidente qualora si leggano interamente i capitoli dove si accenna alla sessualità umana. L’interesse del Santo Padre appare chiaro: ritrovare la grandezza del progetto di Dio sulla sessualità, evitandone la banalizzazione oggi diffusa.

Alcune interpretazioni hanno presentato le parole del Papa come affermazioni in contraddizione con la tradizione morale della Chiesa, ipotesi che taluni hanno salutato come una positiva svolta e altri hanno appreso con preoccupazione, come se si trattasse di una rottura con la dottrina sulla contraccezione e con l’atteggiamento ecclesiale nella lotta contro l’Aids. In realtà, le parole del Papa, che accennano in particolare ad un comportamento gravemente disordinato quale è la prostituzione (cfr. Luce del mondo, prima ristampa, novembre 2010, pp. 170-171), non sono una modifica della dottrina morale né della prassi pastorale della Chiesa.

Come risulta dalla lettura della pagina in questione, il Santo Padre non parla della morale coniugale e nemmeno della norma morale sulla contraccezione. Tale norma, tradizionale nella Chiesa, è stata ripresa in termini assai precisi da Paolo VI nel n. 14 dell’enciclica Humanae vitae, quando ha scritto che è "esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione". L’idea che dalle parole di Benedetto XVI si possa dedurre che in alcuni casi sia lecito ricorrere all’uso del profilattico per evitare gravidanze indesiderate è del tutto arbitraria e non risponde né alle sue parole né al suo pensiero. A questo riguardo il Papa propone invece vie umanamente e eticamente percorribili, per le quali i pastori sono chiamati a fare "di più e meglio" (Luce del mondo, p. 206), quelle cioè che rispettano integralmente il nesso inscindibile di significato unitivo e procreativo in ogni atto coniugale, mediante l’eventuale ricorso ai metodi di regolazione naturale della fecondità in vista di una procreazione responsabile.

Quanto poi alla pagina in questione, il Santo Padre si riferiva al caso completamente diverso della prostituzione, comportamento che la morale cristiana da sempre ha considerato gravemente immorale (cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 27; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2355). La raccomandazione di tutta la tradizione cristiana – e non solo di quella – nei confronti della prostituzione si può riassumere nelle parole di san Paolo: "Fuggite la fornicazione" (1 Corinzi, 6, 18). La prostituzione va dunque combattuta e gli enti assistenziali della Chiesa, della società civile e dello Stato devono adoperarsi per liberare le persone coinvolte.

A questo riguardo occorre rilevare che la situazione creatasi a causa dell’attuale diffusione dell’Aids in molte aree del mondo ha reso il problema della prostituzione ancora più drammatico. Chi sa di essere infetto dall’Hiv e quindi di poter trasmettere l’infezione, oltre al peccato grave contro il sesto comandamento ne commette anche uno contro il quinto, perché consapevolmente mette a serio rischio la vita di un’altra persona, con ripercussioni anche sulla salute pubblica. In proposito il Santo Padre afferma chiaramente che i profilattici non costituiscono "la soluzione autentica e morale" del problema dell’Aids e anche che "concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità", perché non si vuole affrontare lo smarrimento umano che sta alla base della trasmissione della pandemia. È innegabile peraltro che chi ricorre al profilattico per diminuire il rischio per la vita di un’altra persona intende ridurre il male connesso al suo agire sbagliato. In questo senso il Santo Padre rileva che il ricorso al profilattico "nell’intenzione di diminuire il pericolo di contagio, può rappresentare tuttavia un primo passo sulla strada che porta ad una sessualità diversamente vissuta, più umana". Si tratta di un’osservazione del tutto compatibile con l’altra affermazione del Santo Padre: "questo non è il modo vero e proprio per affrontare il male dell’Hiv".

Alcuni hanno interpretato le parole di Benedetto XVI ricorrendo alla teoria del cosiddetto "male minore". Questa teoria, tuttavia, è suscettibile di interpretazioni fuorvianti di matrice proporzionalista (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, nn. 75-77). Un’azione che è un male per il suo oggetto, anche se un male minore, non può essere lecitamente voluta. Il Santo Padre non ha detto che la prostituzione col ricorso al profilattico possa essere lecitamente scelta come male minore, come qualcuno ha sostenuto. La Chiesa insegna che la prostituzione è immorale e deve essere combattuta. Se qualcuno, ciononostante, praticando la prostituzione e inoltre essendo infetto dall’Hiv, si adopera per diminuire il pericolo di contagio anche mediante il ricorso al profilattico, ciò può costituire un primo passo nel rispetto della vita degli altri, anche se la malizia della prostituzione rimane in tutta la sua gravità. Tali valutazioni sono in linea con quanto la tradizione teologico-morale della Chiesa ha sostenuto anche in passato.

In conclusione, nella lotta contro l’Aids i membri e le istituzioni della Chiesa cattolica sappiano che occorre stare vicini alle persone, curando gli ammalati e formando tutti perché possano vivere l’astinenza prima del matrimonio e la fedeltà all’interno del patto coniugale. Al riguardo occorre anche denunciare quei comportamenti che banalizzano la sessualità, perché, come dice il Papa, proprio questi rappresentano la pericolosa ragione per cui tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore. "Perciò anche la lotta contro la banalizzazione della sessualità è parte del grande sforzo affinché la sessualità venga valutata positivamente e possa esercitare il suo effetto positivo sull’essere umano nella sua totalità" (Luce del mondo, p. 170).


lunedì 20 dicembre 2010

unam sactam


Le due chiese
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

In linea di principio, i teologi saranno pure una benedizione di Dio, ma se su certe questioni fossero i vescovi a dire qualcosa di assennato sarebbe molto meglio: primo perché sarebbe parte essenziale del loro ufficio, secondo perché le loro parole avrebbero benefico effetto su un gregge disorientato, terzo perché si paleserebbe un sostegno al papa da parte di chi gli ha giurato fedeltà.

L’uso del condizionale, per quanto aderente al quadro della Chiesa di questi tempi, in Italia comincia a essere leggermente impreciso. Grazie a Dio, qualche vescovo ha fatto sentire autorevolmente la propria voce di sostegno al Santo padre durante e dopo la tempesta mediatica scatenata su veri e presunti scandali pedofili in seno al corpo ecclesiale.

Monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, monsignor Oliveri, vescovo di Albenga-Imperia, sono tra coloro che hanno parlato più chiaramente.

Tanto chiaramente e con uso talmente cattolico del pensiero, da essere giunti tutti alla stessa conclusione: stante la gravità degli attacchi del mondo a Benedetto XVI, è ben peggio il dissenso livoroso e infingardo che si è contemporaneamente manifestato dentro la Chiesa, una vera e propria macchina del fango messa in atto contro la persona di Joseph Ratzinger per colpire il suo ufficio di guida della cristianità.

Un fenomeno talmente vasto che, lo scorso aprile, monsignor Crepaldi, dando corpo alla sua riflessione in un articolo sul settimanale diocesano di Trieste Vita Nuova titolato “Gli antipapi e i pericoli del magistero parallelo”, ha efficacemente evocato con la figura delle “due Chiese”: una cattolica, fedele alla dottrina immutabile garantita dal papa, l’altra certamente difficile da definire cattolica visto lo stravolgimento della dottrina, della liturgia, della morale e, naturalmente, del concetto di obbedienza che la rendono qualcosa di inedito in venti secoli di storia, quanto meno per la vastità del fenomeno. C’è ben altro che la pedofilia a soffocare la Chiesa, è l’eresia, spiega monsignor Negri.

Il quale, nella premessa a una nuova edizione dell’enciclica Pascendi dominici gregis e del decreto Lamentabili sane exitu di San Pio X, ha constatato che “le proposizioni fondamentali” condannate dal papa al principio del Novecento “tutte chiaramente in contrasto con la dottrina cattolica, hanno costituito in questi ultimi vent’anni il contenuto anche esplicito di tante pubblicazioni teologiche ed esegetiche e hanno sicuramente influenzato l’insegnamento in facoltà e in seminari”. Tradotto nel bell’amore per il latino di monsignor Oliveri, ciò significa che dentro la Chiesa di oggi, troppi teologi, troppi vescovi, troppi sacerdoti e, quindi, troppi fedeli hanno preso a dire “nova”, cioè “cose nuove”, invece che “nove”, cioè cose antiche “in modo nuovo”.

Concetto opportunamente espresso nella prefazione al fondamentale studio di monsignor Brunero Gherardini Concilio Vaticano II. Un discorso da fare. Bruciato il grano d’incenso sull’ovvia deprecazione della dissoluzione morale e sulle nefandezze pedofile che scandalizzano i più piccoli, non si può nascondere che il problema della Chiesa è un altro, è “l’altra Chiesa” che da sempre la aggredisce e che, dal modernismo in poi, ha preso sempre più forza e usato più astuzia.

Cosicché oggi ci si trova davanti a un fenomeno che Ernesto Buonaiuti, punta di diamante del modernismo italiano, disegnò a suo tempo come modalità perfetta della rivoluzione: «Fino ad oggi si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma, fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e infallibile metodo; ma è difficile. Hoc opus, hic labor. [...] Il culto esteriore durerà sempre come la gerarchia, ma la Chiesa, in quanto maestra dei sacramenti e dei suoi ordini, modificherà la gerarchia e il culto secondo i tempi: essa renderà quella più semplice e liberale, e questo più spirituale; e per quella via essa diventerà un protestantesimo; ma un protestantesimo ortodosso, graduale, e non uno violento, aggressivo, rivoluzionario, insubordinato». La lungimirante efficacia di tale programma si mostra nella tragedia di tanti fedeli, tanti parroci, tanti vescovi, tanti teologi e tanti intellettuali che, in tutta sincerità, si credono conservatori e, invece, sono progressisti della più bell’acqua. Pur accreditando loro la “buona fede”, non si può certo fare altrettanto con la “fede buona”. Volenti o nolenti, hanno fatto proprio il nocciolo duro del modernismo, che non stava tanto nell’opposizione all’una o all’altra delle verità rivelate, ma nel cambiamento radicale della nozione stessa di verità, mediante l’accettazione del “principio di immanenza” che sta alla base del pensiero moderno: “La verità non è più immutabile dell’uomo stesso, giacché essa si evolve con lui, in lui e per mezzo di lui”. Proposizione, quest’ultima, condannata dal decreto Lamentabili. La conseguenza più clamorosa di questo errore modernista è la convinzione che i dogmi progrediscono, in un vortice evolutivo in cui l’essere si confonde con il non essere, il bene con il male, il vero con il falso, nel più clamoroso ripudio del principio di non contraddizione. Qualcuno potrebbe obiettare che il modernismo è un fenomeno storico, che ormai appartiene al passato. Non la pensava in questo modo Paolo VI, che durante l’udienza generale del 19 gennaio 1972 spiegava ai fedeli che il modernismo “sotto altri nomi è ancora di attualità”, in quanto espressione di una serie di errori che potrebbero “rovinare totalmente la nostra concezione della vita e della storia”. Nel 1966 era stato Jacques Maritain nel suo Il contadino della Garonna ad affermare che il modernismo non era che “un modesto raffreddore da fieno” se paragonato alla “febbre neomodernista” allora diffusa nella cultura cattolica. Dottrina, liturgia, morale e disciplina ne sono uscite a pezzi. Per capire come tutto questo si traduca nella pratica quotidiana, basta por mente alla miriade di convegni e conferenze promossi da diocesi e parrocchie, in cui vengono messi in cattedra studiosi e intellettuali che insegnano una dottrina capovolta rispetto a quella cattolica. Oppure alla terrificante confusione innescata da analoghe, numerose iniziative promosse sul terreno del dialogo interreligioso. Scrive a proposito monsignor Crepaldi: «Benedetto XVI ha dato degli insegnamenti sui “valori non negoziabili” che moltissimi cattolici minimizzano o reinterpretano e questo avviene anche da parte di teologi e commentatori di fama ospitati sulla stampa cattolica oltre che in quella laica; ha dato degli insegnamenti sul primato della fede apostolica nella lettura sapienziale degli avvenimenti e moltissimi continuano a parlare di primato della situazione, o della prassi o dei dati delle scienze umane; ha dato degli insegnamenti sulla coscienza o sulla dittatura del relativismo ma moltissimi antepongono la democrazia o la Costituzione al Vangelo. Per molti la Dominus Iesus, la Nota sui cattolici in politica del 2002, il discorso di Regensburg del 2006, la Caritas in veritate è come se non fossero mai state scritte».

Il problema, dunque, non è solo nell’ostilità dei nemici esterni alla Chiesa, ma è innanzitutto nella dabbenaggine dei cattolici stessi, documentata da “teologi e commentatori di fama ospitati sulla stampa cattolica”, chiara allusione a ben identificabili testate nel limitato gruppetto di quotidiani e settimanali formalmente ecclesiali. Cui si aggiunge la bordata contro il “cattolicesimo democratico” che “antepone la democrazia o la Costituzione al Vangelo”.

Data la naturale e soprannaturale corripondenza tra lex orandi e lex credendi, tra liturgia e dottrina, tutto ciò si trasforma nella devastazione della Messa. Nella maggior parte delle chiese, ormai, la celebrazione non è più intesa come rinnovamento del sacrificio del Calvario, ma come festa con uso di banchetto conviviale, non è più regolata dal rispetto del diritto di Dio al culto, ma dalla autoglorificazione dell’uomo.

Da questo scende una semplicissima constatazione: a due culti diversi corrispondono due fedi diverse e, quindi due chiese diverse. Una da scrivere con la “C” maiuscola, l’altra sembrerebbe di no.

ALESSANDRO GNOCCHI e MARIO PALMARO Autori di Viva il papa. Perché lo attaccano, perché difenderlo, Vallecchi editore, 2010

Fonte: Formiche, dicembre 2010 via Papa Ratzinger blog